venerdì 2 dicembre 2016

Un padre, una figlia (2016) di Cristian Mongiu


Siamo in Romania. Romeo è un cinquantenne perbene, un piccolo-borghese che vive in una piccola città di provincia: è stimato da tutti, dentro e fuori dell’ospedale in cui lavora come chirurgo; ha una casa dignitosa, una bella moglie e una figlia – Eliza – obbediente e volenterosa.
Dopo aver abbandonato il paese oppresso dalla dittatura di Ceausescu, alla caduta del regime è rientrato per contribuire alla ricostruzione, ma si accorge che la fine del dispotismo non apre automaticamente le porte alla democrazia.
Il paese è sfaldato, molti problemi permangono, le ingiustizie trovano forme nuove per sopravvivere e prosperare.
Si rassegna. Continua a lavorare con senso di responsabilità, accetta lo stato delle cose, mantiene unita la famiglia (pur coltivando una relazione extraconiugale che lo conforta della routine un po’ depressa delle sue giornate), ma – da buon padre – si ritrova a proiettare tutte le sue aspettative sulla figlia diligente e remissiva, investe su di lei tutte le attenzioni, stabilisce che sarà lei a raggiungere i risultati che a lui sono stati negati. E decide che, per salvarla dalle pastoie di un paese alla deriva, dovrà mandarla, dopo il diploma, a completare gli studi in Inghilterra.

L’equilibrio sul quale ha imbastito la sua esistenza viene però interrotto prima da alcuni inspiegabili vandalismi (un sasso contro la finestra di casa, il parabrezza dell’auto fracassato; intimidazioni? vendette?), poi da un’aggressione nei confronti della ragazza, un tentativo di stupro avvenuto proprio alla vigilia dell’esame di maturità, passaggio irrinunciabile per l’ammissione al college inglese.
Il buon uomo, che ha incanalato sull’avvenire di Eliza tutte le sue energie e la sua voglia di riscatto, è spiazzato, frastornato. Deve, ad ogni costo, districarsi dall’impasse. Sa che la figlia supererà il trauma col tempo, ma sa anche che se la ragazza – confusa per lo shock – non si presenta o non supera l’esame di maturità, tutti i progetti di una vita franeranno.
È necessario fare qualcosa, qualunque cosa, subito, su tutti i fronti: da una parte occorre agire sulla ragazza, consolarla e tranquillizzarla, ma anche scuoterla dal torpore post-traumatico e spronarla a superare il dolore e la confusione; dall’altra bisogna cercare, fra amici influenti e antichi compagni in carriera, possibili escamotage che gli lascino una via d’uscita e gli permettano di risolvere il problema.

La macchina da presa resta incollata, inquadratura dopo inquadratura, al protagonista che galleggia nella desolazione di ambienti urbani squallidamente anonimi, annaspa nell’impotenza, indaga, si muove a vuoto, incontra funzionari e poliziotti, chiede favori in cambio di favori, accetta compromessi.
La tensione è sottile e pervasiva, come la polvere che aleggia nell’aria.
Il groviglio è inestricabile.
Romeo Mongiu è confuso, non sa come uscirne, non vede spiragli.
E nemmeno il regista sa trovare soluzioni: anche lui fa parte della generazione della terra di nessuno, quella che ha covato profondi rancori e nutrito grandi speranze, che ha sognato l’emancipazione e la libertà ed ha scoperto alla fine, dopo l’ubriacatura seguita alla rottura delle catene, che la gabbia più robusta non è quella costruita e imposta dai dittatori ma quella interiore degli schiavi sopraffatti dalla rassegnazione, disabituati alla libertà.
Il destino degli eterodiretti che si affrancano dall’oppressione è quello di smarrirsi, abbacinati dalla libertà o resi impotenti dal paternalismo.
Spesso sono le sorti individuali, sommate, a descrivere il destino collettivo e tracciare la storia di un paese.

La conclusione della vicenda, forzatamente ottimista, non è credibile: non convince il fatto che sia la figlia – fino a ieri remissiva al limite dell’ebetudine – a tagliare il nodo gordiano e decidere di non partire.
Il regista – inventando questo lieto fine – chiude la vicenda con una solenne dichiarazione di ottimismo: ci vuol far credere in sostanza che il gesto di Eliza condensi in sé la determinazione (sua e della sua generazione) di intraprendere il cammino verso l’autonomia ed esprima la voglia di voltare pagina (la stessa voglia che aveva indotto Romeo a fuggire dal paese oppresso da Ceausescu, la stessa voglia che lo aveva poi indotto a tornare alla fine della dittatura).

Ma noi spettatori scettici e smaliziati non crediamo alle nobili proclamazioni del regista.
Crediamo invece a quello che ci dice DURANTE tutto il film che, in realtà, è un doloroso inno ai rimpianti e alla rassegnazione, una lamentosa recriminazione, una accorata dichiarazione di pessimismo (implicita nella decisione di Romeo di far espatriare la figlia, esplicita nel suo continuo ripetersi che “non si possono cambiare le cose”).
Tutto il film descrive (in sequenze fredde come il gelo che si espande in chi agisce senza speranza) la lenta deriva personale, morale e politica di un uomo onesto che vive di menzogne, di un marito che ha smarrito la passione ma resta in famiglia per salvare le apparenze e non turbare la figlia, di un amante che vive una relazione senza calore, di un cittadino impegnato che nel passato aveva creduto nel risveglio etico della nazione ed ora è costretto a cercare raccomandazioni ripetendosi che “a volte, conta solo il risultato”.

E a proposito del gesto di Eliza, è lecito nutrire il sospetto che la ragazza decida di restare perché – paradossalmente – è disabituata a decidere. 
Paradigmatica l’inquadratura che ci mostra, per una frazione di secondo, la finestra infranta dall’ignoto vandalo che ha i vetri rattoppati, non sostituiti.



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