venerdì 2 dicembre 2016

Ti guardo – Desde allà di Lorenzo Vigas (2015)



Non l’ho capito. L’ho trovato incoerente. Mi ha lasciato perplesso.
Credo che l’ottima performance del protagonista (diciamocelo: ci vuole talento a mantenere un’espressione catatonica dalla prima all’ultima scena per oltre 90 minuti) non sia sufficiente a giustificare il Leone d’oro, e allora vado a leggermi umilmente qualche recensione.  Magari mi sono perso qualcosa, non ho colto messaggi, non mi sono lasciato “accendere” per qualche inconsapevole ragione.
Leggo di rimandi a Fassbinder e di echi pasoliniani. Fin troppo scontato per un film che parla di omosessualità, che presenta un borghese introverso che adesca giovani sottoproletari, che associa sodomia e violenza (stabilendo simmetrie fra rapporti sessuali e rapporti di classe). Ma bastano i temi e le situazioni a legittimare questi paragoni?

Armando (Alfredo Castro) è un imperturbabile triste cinquantenne – protesista dentale – che pesca coatti più o meno ingenui alle fermate dei bus di Caracas.
Elder (Luis Silva) è un borgataro che, attratto dalla esibizione di una mazzetta di banconote, accetta di seguirlo nel suo appartamento ma poi si ribella, lo mena e scappa col malloppo.
I due, si fiutano inquieti, scoprono di essere meno diversi di quanto appare, nascondono grumi di ossessioni, infelicità profonde, conflitti con le figure paterne, traumi infantili, turbamenti, aridità emozionali.
Scatta fra di loro uno strano meccanismo di interdipendenza, fatto di disperata attrazione e sorda repulsione, che non potrà che trovare esiti sventurati (e imprevedibili) e ci farà scoprire, sorprendendoci, che non abbiamo assistito ad un film sulle imprevedibili complicazioni dell’amore.

Non è facile combinare insieme i drammi della solitudine con le ossessioni gay e con gli squilibri dati dalle emarginazioni sociali e dai conflitti di classe. La mistura, troppo complessa ed eterogenea, non è di facile gestione. Il risultato può rivelarsi incoerente, complicato fuori misura, poco credibile, incomprensibile. Troppo repentini appaiono infatti i cambiamenti che subiscono i due personaggi, dapprima inconciliabilmente distanti, egoisticamente opposti, radicalmente conflittuali e poi – dopo poche schermaglie che dimostrano anche la diversità dei linguaggi e l’eterogeneità dei fini – pronti a dare una svolta radicale alle rispettive esistenze in nome di fumosi traumi familiari, a sacrificarsi l’uno per l’altro, a pagare oltre misura un ambiguo contratto di convivenza.

L’ambizioso regista, più che a Pasolini, dichiara di far riferimento ad Haneke e Bresson (e meno male che non scomoda Losey o Genet).

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Ma a me pare che, indipendentemente dai modelli, dimostri abilità (con l’apparato produttivo che lo accompagna) nel centrare con perspicacia i gusti delle giurie festivaliere che, ormai lasciate a bocca asciutta dal bolso cinema europeo (debole concorrente), appaiono sempre più propense a lasciarsi sedurre da pruriti cinefili (i cinefili, per natura amanti delle perversioni, si accontentano spesso delle parvenze di perversione), sono sempre pronte a farsi condizionare dal politically incorrect e stanno bene attente a distribuire i premi con salomonica equidistanza, soppesando più la provenienza geografica che la qualità del prodotto.

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