venerdì 2 dicembre 2016

Ma Loute (2016) di Bruno Dumont


Siamo in Francia, dalle parti di Calais, negli anni che precedono la prima guerra mondiale. In una villa isolata simil-egizia che sovrasta una baia, passano la loro estate alcuni membri di una famiglia aristocratica: il traballante signor André Van Peteghem (Fabrice Luchini), la sua svampita signora, madame Isabelle (Valeria Bruni Tedeschi), due figlie, la teatrale sorella (Juliette Binoche) col marito psicotico e la loro eccentrica figlia, Billie, che si traveste spesso da maschio.
Lì vicino, in lerce stamberghe poco distanti dal mare, abita stabilmente la famiglia Brufort, composta da due coniugi e quattro figli, uno adulto (il Ma Loute che dà il titolo al film) e tre bambini. Il vecchio Brufort, ex-pescatore, ora raccoglie cozze e, d’estate, aiutato dal figlio maggiore, trasborda turisti attraverso la laguna, traghettandoli in barca quando c’è la marea, o in spalla, come San Cristoforo, quando l’acqua cala.
Sul posto si aggira anche un obeso ispettore di polizia e un suo aiutante che indagano su inspiegabili sparizioni di turisti di passaggio.
Billie e Ma Loute s’incrociano e quasi subito s’innamorano, nonostante la contrarietà delle rispettive famiglie e nonostante le abissali differenze (lei è splendida e ricca, lui è un miserabile con l’espressione sgraziata di un idiota). Ma la loro improbabile relazione va in crisi quando Ma Loute scopre che Billie non è una femmina che si veste da maschio, ma un maschio che ama travestirsi da femmina.

La trama di per sé non è complessa e ha una sua accettabile impalcatura.
Ma il film risulta ostico e incomprensibile, pesantemente condizionato e reso sconcertante dalla caratterizzazione caricaturale dei personaggi (talmente stravaganti da apparire inverosimili) e da un surrealismo crescente che alla fine impregna tutto il film: un surrealismo a tratti lirico (con personaggi che si librano nell’aria come nei quadri di Chagall), a volte grottesco (con passaggi inverosimili e paradossali) e in certi momenti granguignolesco (con sgradevoli scene di cannibalismo). 

La scelta di disorientare è intenzionale in Bruno Dumont, il regista, che gioca a fare l’iconoclasta anarchico e non salva nessuno dei suoi scombinati personaggi, tutti brutti, tutti paurosamente sopra le righe, tutti mostruosi, tutti infelici.
I nobili sono tarati e malsani, stralunati al limite dell’ebetudine; i loro gesti sono eccessivi e plateali, impacciati e maldestri; i discorsi sono falsamente esaltati, esasperati nella loro ipocrisia, ingarbugliati e assurdi, alla Jonesco.
I sottoproletari sono cupi, torvi, afasici; le loro espressioni (intense) sono da idioti; i loro movimenti hanno automatismi da dementi; le loro azioni sono dettate da una ferocia inconsapevolmente ottusa.
Il clero, le forze dell’ordine, l’esercito, … fanno da contorno grottesco, dando dimostrazione della totale inefficacia, tragicamente comica, delle istituzioni.
Guardare il film è come attraversare il tunnel degli orrori in un luna-park scadente in cui non si sa se ridere o disperarsi. Tutto quello che accade è incomprensibile e inquietante, tanto più inquietante, quanto più indecifrabile: voli, assassinii, processioni, naufragi, banchetti, discorsi.     

I rimandi sono numerosi, eterogenei, confusi.
Si è già detto di Chagall (con la signora vestita di pizzo che si eleva nel cielo), ma c’è anche Magritte (perché nel finale si libra fra le nuvole anche il commissario obeso, vestito di nero e con la bombetta in testa) e Monet (per gli scorci paesaggistici) e forse anche Turner (per le barche nella tempesta).
Sempre il commissario col suo esile assistente appaiono una citazione di Ollio e Stanlio e della slapstick comedy (un genere nato proprio in Francia agli inizi del secolo scorso, fondato sulla comicità dei corpi): vedi la gag ricorrente delle cadute, le botte distribuite, le sdraio che cedono, le posture e i gesti e l’incedere spastico di André, l’incidente col carretto a vela, la carica del colonello-trombettiere, l’inseguimento collettivo della corda penzolante legata al piede del commissario obeso che levita come un palloncino (e come un palloncino si sgonfia e torna a terra quando gli sparano), …
Gli effetti sonori (come quello dei passi dell’elefantiaco commissario) sono da cartone animato.
La scelta di costruire una storia attorno alla parabola del cannibalismo ricorda Delicatessen (1990) di Jeunet e Caro.
L’eccentricità dei personaggi è felliniana; la causticità anarchica ricorda Buñuel (e Marco Ferreri, il grande fra gli irriverenti).

Le metafore, talvolta impercettibili, abbondano. Quelle che alludono all’eterna contrapposizione delle classi sociali sono le più frequenti: il lungomare desolato e fangoso per i poveri è ragione di gridolini di meraviglia per la nobildonna (il cui marito però va avvertendo allarmato che “C’è il fango nella Baia!”); il cibo è occasione ossessiva di convivialità per i borghesi (che però non lo toccano, come nel buñueliano Il fascino discreto della borghesia) e di primitiva voracità cannibale per i poveri; l’aristocratico André esprime tutta la doppiezza di conservatore disprezzando la volgarità dei pezzenti o l’ambiguità sessuale di sua figlia e giustificando però i rapporti incestuosi nella sua famiglia degenerata e decadente. La composizione stessa del cast forse ci vuol dire qualcosa, con gli attori professionisti tutti a interpretare i ricchi (e a parodiare i propri cliché) e gli interpreti presi dalla strada a impersonare i miserabili.
Il tutto confezionato in modo da far capire che le differenze di classe non corrispondono a sostanziali differenze fra gli individui, tutti accomunati da un imbarazzante disadattamento esistenziale (rappresentato dalle deformità fisiche).

Come molti film che hanno l’ambizione di essere autoriali, Ma Loute mostra però le corde: è eccessivo nelle allegorie, debordante nell’ossessione per l’assurdo (alla Alfred Jarry), troppo schematico nelle allusività (e quindi, alla fine, criptico), troppo insistente su dettagli che vogliono essere pregnanti di significatività ma risultano incomprensibili (e, se la prima volta stupiscono, la seconda spiazzano e poi annoiano o irritano).
L’idea di raccontare tragedie utilizzando gli stilemi farseschi è difficile da praticare. È vero che la farsa è uno degli strumenti più potenti per esprimere il disprezzo per i propri simili, ma è anche vero che si presta a letture epidermiche; che nella maggior parte dei casi lo spettatore guarda il dito, ride e non riflette, propendendo a letture moralistiche, presumendo che l’irrisione non lo riguardi ma sia destinata ad altri.

In sostanza siamo di fronte all’opera complicata di un inguaribile misantropo, di un arrabbiato, di un pessimista tetro, irrimediabilmente diffidente nella possibilità dell’uomo di trovare una dimensione “umana”.
Se Bruno Dumont avesse ceduto a una tentazione di ottimismo, avrebbe fatto annegare nella tempesta in mare i due ragazzi innamorati. E sarebbe stato un lieto fine. 

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