venerdì 2 dicembre 2016

Al di là delle montagne (2015) di Jia Zhang-ke

Il film racconta alcune piccole dolorose vicende individuali, ma sullo sfondo si delinea la trasformazione della Cina negli ultimi due decenni e il suo vorticoso processo di modernizzazione e di espansione economica. La narrazione del disorientamento esistenziale diventa occasione esemplare per rappresentare l’instabilità globale (che spesso, come si sa, è a sua volta incubatrice dei disagi individuali).
Le storie narrate sono quelle di tre giovani amici, due ragazzi e una ragazza (una specie di triangolo amoroso) che pagano con l’infelicità le loro scelte affettive, travolti dalle circostanze particolari e dagli avvenimenti generali.
La vicenda è scandita in tre tempi.
Nel primo episodio, come in un prologo, si racconta il passato. Siamo nel 1999, a Fenyang, in Cina. L’anno segna il passaggio verso il nuovo millennio carico di attese e di ottimismo; la piccola città (luogo di nascita del regista) si trova nella provincia mineraria dello Shanxi. La bella Tao (Zhao Tao, moglie del regista), corteggiata da due amici diventati suoi rissosi pretendenti, non ascolta le ragioni del cuore e sposa Zhang, il benzinaio rampante (quello che gli porta in regalo la paccottiglia pop-kitsch che scimmiotta la tecnologia occidentale); a Liangzi, povero minatore, non resta che allontanarsi dal paese.
Il secondo episodio fotografa il presente, e cioè il 2014 (anno di produzione del film): Tao, separata da Zhang che vive a Shangai col figlio Dollar (già!), incontra il bambino in occasione del funerale di suo padre; nella stessa circostanza rivede anche Liangzi, malato di cancro, e gli offre del denaro per curarsi.
Il terzo episodio - l’epilogo - prefigura il futuro: siamo nel 2025, un anno non così lontano e distopico, ma già sconvolto dal frenetico e frastornato processo di evoluzione che interessa la Cina. Zhang e Dollar si sono trasferiti in Australia: Zhang è un rampante uomo d’affari; Dollar si è completamente americanizzato rinnegando la cultura di origine e dimenticando la lingua dell’infanzia (non ricorda nemmeno il nome della madre); il ragazzo entra però in conflitto col padre (sempre più prepotente, sempre più fragile), lo affronta e decide di affrancarsi; forse cederà all’impulso confuso di partire in cerca della madre. 
Per ognuno dei tre atti il regista adotta un formato diverso: nel primo, quello della memoria, troviamo il tradizionale 4/3 usato nei vecchi film; nel secondo, quello dell’euforia per la transizione dal comunismo al capitalismo, abbiamo il panoramico; infine, quello che ci proietta nel futuro, viene scelto il rapporto “scope” di oggi, quello più utilizzato dal cinema digitale. Un geniale espediente questo che manda in sollucchero i cinefili, ma serve anche a comunicare subliminalmente con l’inconscio di tutti noi, consumati fruitori di immagini. Coerenti col formato, cambiano anche le scelte di colore, e quindi i toni, le atmosfere, le musiche. Come se si trattasse – questo suggerisce la scelta – di storie avvenute su pianeti diversi.

Jia Zhang-ke dimostra una straordinaria sensibilità: in questo film lo vediamo attento alle emozioni e ai sentimenti privati (nei modi un po’ introversi che hanno le persone emotivamente vive) e angosciato per i cambiamenti sociali, etici, politici del suo paese (e del globo, considerato l’ugual destino che accomuna tutti), consapevole che i mutamenti – fra i danni NON collaterali – comportano proprio l’usura dei sentimenti, l’inaridimento delle passioni, lo sfilacciamento degli affetti, la perdita dei riferimenti valoriali.
Come tutte le persone sensibili e intelligenti, sceglie la semplicità come modalità di comunicazione e sa raffigurare sentimenti forti con inquadrature essenziali fatte di silenzi e sguardi: se deve raccontare di un amore che nasce, lo condisce con le reticenze che tutti conosciamo; se deve descrivere un conflitto per gelosia, mescola la rabbia con l’imbarazzo doloroso di chi è morso dall’insicurezza; se deve mostrare i cambiamenti nel tempo di un paese e delle persone, sceglie con cura i colori degli abiti e gli sfondi dei paesaggi rurali (ricordate la ciminiera incombente, fumante o spenta?).
Per rappresentare le sofferenze (e qui ce ne sono) non calca la mano sulla retorica ricattatoria della commozione. Un esempio: quando vuole segnare la distanza che separa i valori della tradizione (precapitalista) dalla frenesia per l’emancipazione e, nello stesso tempo, lo smottamento che ha precipitato il paese dall’ossessione comunista a quella consumista, il regista mostra Tao che da un’altra stanza ascolta il figlio di sette anni che comunica via skype con la nuova compagna di suo padre (chiamandola mamy). 
Il linguaggio di Jia è fatto di reticenze, sottrazioni, sottintesi.
I segnali inviati sono minimi ed essenziali: nel percepirli lo spettatore attento si sente accomunato alla delicata sensibilità del regista e attratto in una magica consonanza di passione (sin-patia).   
[Serve qui ricordare quanto lontani siamo dal frastuono di altre cinematografie, dalla perentoria retorica, dalla superficialità, dalla trombonaggine supponente di altri autori?].

Certo, alcuni passaggi appaiono eccessivamente manichei. Alcune metafore grondano di allegoria barocca (dai nomi, Tao e Dollar, all’insistita presenza dei ravioli al vapore, dalla sequenza con la tigre in gabbia alla cerimonia del funerale, dalle scene con la ciminiera e la pagoda sullo sfondo a quelle del disgelo sul fiume, …). Alcuni assiomi inoltre (soprattutto per noi occidentali scettici mitridatizzati contro le emozioni) possono apparire retorici e passatisti: come l’idea che vi siano rapporti di causa-effetto fra l’allentamento della memoria e quello dei legami familiari e della solidità etica; o la convinzione che il tempo usuri inevitabilmente i sentimenti; o la certezza che ogni transizione comporti squilibri e svilimenti; e che il denaro derivi da corruzione e produca degenerazione. (L’impressione però può paradossalmente anche essere la desolante riprova del consolidamento di una deriva, e cioè del fatto che da noi sia ormai riconosciuto come normale quanto in condizioni più fluide, come in Cina, viene percepito dai più sensibili come il preambolo del disfacimento).

Comunque sia, qui, ogni fragilità s’innesta coerentemente nel quadro delle lacerazioni sociali; e la lucida precisione dell’analisi sociologica rende credibile l’agitarsi di ogni squilibrio emotivo. Gli smottamenti collettivi s’intrecciano con gli imbarbarimenti individuali in interdipendenze inestricabili: è impossibile stabilire responsabilità originarie, mentre è evidente il fatto che ogni individuo squilibrato scompensa la società e ogni società dissestata produce alienati. 

Jia Zhang-ke non è un laudator dei tempi passati: più che rimpiangere il passato, piange sulla marcia cieca del suo paese verso un progresso che calpesta tutto: i sentimenti, le relazioni, i valori, le tensioni dello spirito (non necessariamente religiose). Il regista disapprova questa corsa ostinata che diventa distacco e strappo dal passato e perdita di memoria, squilibrio e assenza di punti di riferimento, isolamento e incapacità a comunicare.
Il giovane Dollar ha dimenticato il nome della madre ma ha rimosso anche la lingua dei genitori, e per litigare col padre ha bisogno di un interprete. Si accorge che quella che per suo padre era la terra promessa, per lui è la terra nemica; e che ogni terra è straniera per uno sradicato come lui, straniero ovunque, privo di identità, spaesato; e non esiste nessun paese in cui si possa sentire a casa.
La chiave di casa che sua madre gli ha appeso al collo quando si sono lasciati è un feticcio portafortuna che non apre più nessuna porta.


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