giovedì 25 giugno 2015

Youth (2015) di Paolo Sorrentino


De senectute doveva intitolarsi questo film, e non La giovinezza, che – incarnata nei folgoranti glutei di miss universo – sfila solo per un attimo (come Anita nel fontanone di Trevi) davanti agli occhi miopi di Michael Caine (92 anni suonati) e a quelli da topo di Harvey Keitel (che assomiglia un po’ a Polanski e di anni ne ha solo 76).
Dopo Moretti (Mia madre) anche Sorrentino riflette sulla dissoluzione della vecchiaia e della memoria: il primo, che forse la sente incombente, cincischia nevrotico ed vanitoso; il secondo, che la prefigura lontana, filosofeggia desolato e fellineggia come al solito. Ma in ambedue c’è qualcosa di fasullo, di artificioso: viene da pensare che sia un vizio tutto italiano, degli autori italiani, quello di girare film per esibirsi e non per far vivere emozioni, di mandare messaggi al milieu degli intellettuali snob che si atteggiano a cinefili, di solleticare la corteccia cerebrale dei critici, di offrire argomenti ai giornalisti della pagina degli spettacoli, far litigare le giurie dei festival e fomentare le polemiche che fanno bene al botteghino.
Sorrentino, fra i cosiddetti grandi, non è il primo a cedere a questi impulsi: troppi registi (ma anche molti artisti, scrittori, compositori,…), dopo aver dato l’anima e essersi espressi in alcune prime opere geniali (ascoltando la creatività compressa che “ditta dentro”), una volta assaggiato il meritato successo, si sono lasciati gradualmente sedurre dalle sirene della presunzione sino a farsi fagocitare dagli ingranaggi della produzione per partorire quello che vuole il mercato (“internazionale” of  course), quello che i consumatori si attendono, quello che la carriera impone.
Youth non si sottrae a questo meccanismo: per un’oretta svolazza a mezz’aria con quella dose di confusione che te lo fa sembrare alla ricerca disorientata di risposte sulla vita e sull’amore, sulla paternità e sull’arte, sulla dissoluzione dei legami e sull’inquietudine di chi sente vicina la fine. Poi arranca disorganico, delude le promesse e precipita pesantemente sotto il peso della sua esagerata artificiosità, eccessivo nei colori, sentenzioso nei dialoghi (che sono sostanzialmente un montaggio di monologhi, un’antologia dell’aforismo), triste nella sua consapevole e colpevole immodestia. Volendo parere un grande film, riesce a essere solo penosamente grosso, ingombrante, opulento, ponderoso, indigesto come un piatto con troppi ingredienti.
Volendo essere antinarrativo, riesce a essere confuso, soprattutto per l’eccessivo numero di sequenze oniriche (che, vabbè, sono inspiegabili per loro natura, ma sono tenute ad essere significative e organiche alla sia pur articolata complessità del discorso).
Volendo essere denso, diventa criptico per la fissazione nell’uso di messaggi subliminali (le simmetrie minimaliste degli interni, le esplosioni primaverili degli esterni, l’onnipresenza dell’acqua) e per le disseminate metafore (acuta quella della felicità, lontanissima per i vecchi, illusoriamente a portata di mano per i giovani, irraggiungibile per tutti).

Caine si salva, splendidamente inespressivo come sempre (e flemmatico come piace a noi, con le rughe come valore aggiunto). Keitel è il solito cialtrone, qui in disarmo.
La Fonda è un mascherone imbarazzante di disincantato cinismo e di forzata trivialità, ma da sotto il cerone trasuda muffa, non traspira la malìa suggestiva delle grottesche creature felliniane.
La sfilata dei personaggi di contorno echeggia proprio il bestiario di Fellini, esplicitamente omaggiato nella sconcertante apparizione a Keitel degli interpreti di tutti i suoi film sui verdi pascoli alpini insolitamente sgombri da musicanti mandrie in prova d’orchesta. Ma mentre Fellini ritrae archetipi organici al senso generale dei suoi film (pensate alla galleria di Amarcord), Sorrentino abbozza caricature (l’obeso Maradona, il monaco buddista che levita, l’alpinista rozzo, la massaggiatrice analista, l’équipe degli sceneggiatori creativi, l'aplombico inviato della regina, la coppia rancorosa) e le infila nella trama (trama?) in un susseguirsi di siparietti dissociati, senza farcene intuire la funzionalità, le connessioni, il significato. Ma si sa, nei Grand Hotel c’è sempre gente che viene... che va... tutto senza scopo... (come nel film di Goulding del 1932).

Un film da spiluccare, insomma, dove ognuno, come negli aperitivi in piedi, può trovare bocconi sorprendentemente saporiti. Ma si capisce da lontano che l’infilata kitsch delle guantiere zeppe è pensata per fare bella mostra di sé, con le tartine policrome e lustre fatte di pane flaccido e lamelle di salmone sotto vuoto.




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