giovedì 9 aprile 2015

Boyhood, di Richard Linklater (USA 2014)


Vassene il tempo e l’uom non se n’avvede (Dante, Commedia, Purgatorio, IV, 9).
Linklater ha avuto il coraggio di raccontare 12 anni di vita di una famigliola americana  seguendone in diretta l’evoluzione e impiegandoci quindi 12 anni. [A ben pensarci, trattandosi di Linklater, più che di coraggio, si dovrebbe parlare di ossessione per il trascorrere del tempo, già rivelatasi nella trilogia Prima dell’alba, Prima del tramonto, Prima di mezzanotte in cui sintetizza la storia di una coppia – di due vite – raccontandone i passaggi topici].
Il regista (texano ma moderatamente americano) si permette di far cadere la scelta su una famiglia normale, molto yankee (bibbia e fucile), quasi paradigmaticamente wasp. La bella coppia è ovviamente separata ed ha, altrettanto ovviamente, due splendidi figlioli. La mamma Olivia (Patrice Arquette) è belloccia con qualche inquietudine (quanti traslochi!) e molto senso di responsabilità; il padre Mason sr. (Ethan Hawke) è estromesso e defilato ma non per questo assente; il figlio maschio (Mason jr. - Ellar Coltrane), che ha 8 anni all’inizio della storia, attraversa la più ordinaria delle adolescenze fino al distacco del college; la figlia femmina (Samantha - Lorelei Linklater, figlia del regista) è una impertinente di poco più grande di Mason Jr., alla quale, mi pare, è affidato il ruolo quasi esterno di occhio critico di tutte le vicende.
Famiglia normale, dunque, e storia normale, di vite normali, sanza 'nfamia e sanza lodo: nel corso del film non succede nulla di clamoroso, non ci sono passaggi decisivi, svolte radicali; anzi ci sono momenti di stasi, un briciolo di noia, diverse incoerenze e disomogeneità (anche “tecniche”, di montaggio e ritmo, fotografia), dialoghi banali, scarsi approfondimenti psicologici, prospettiva neutrale (“vi dico quel che si vede”).

Ma forse in questa “ordinarietà” sta il valore del film.
La legge fondamentale del cinema è l’elissi temporale per la quale il tempo reale è una cosa e il tempo filmico è tutt’altro.
“Il dramma è come la vita, ma con le parti noiose tolte”, diceva Hitchcock.
Il cinema, per sua regola, manipola il tempo e lo piega alle sue esigenze; per convenzione, tende a raccontare eventi o momenti paradigmatici, a ritagliare avvenimenti o episodi d’impatto, a usare forzature artificiose, a condensare effettacci, a isolare e proporre scene di forte carica, a selezionare dei climax individuando circostanze di particolare intensità (come risulta smaccatamente evidente nei film di “genere”, triller o western, erotici o horror, comici o musicali).
Linklater qui non usa il tempo ma si lascia usare, trasgredisce tutte le regole e le convenzioni e va via liscio, racconta la routine volendo puntare a rappresentare (e sottolineare) non la drammaticità della vita (non sempre presente) ma quella inevitabile del tempo che scorre.
[Un po’ come ha fatto Truffaut, in film diversi e in altri modi, riproponendo il suo alter ego Antoine Doinel nelle sue differenti stagioni; un po’ come fanno, forse inconsapevolmente e per scelta inevitabile, i vari harripotter o – absit iniuria verbo – le soap decennali (penso a Dallas), costrette a modificare le storie per il cast che invecchia, le bellone che si afflosciano e i coprotagonisti che defungono].

Ecco, in questo ruit hora sta il senso angoscioso del film.
Se non hai una sensibilità pachidermica, ti ritrovi a pensare che se il compendio narrativo di Boyhood fila via in 164 minuti, forse la tua vita potrebbe essere descritta in 164 secondi. Vista infatti in prospettiva “storica” e considerata ad una giusta distanza emotiva, non dura più di un battito di ciglia, ne ha la stessa significanza, produce gli stessi effetti e non scatena uragani in nessuna parte del mondo.
La consapevolezza (per ognuno) di non essere l’ombelico del mondo è rara. E chi la raggiunge, ha la naturale propensione a dimenticarsene. Per sfangare la giornata ognuno di noi manipola la realtà e finge di avere (possedere, controllare, organizzare) il tempo, proprio come fanno i registi (e gli scrittori) nel costruire le loro storie. 
Qui Linklater rovescia il banco, fa quasi coincidere la realtà (profilmica) con la finzione, invitandoci (costringendoci) a uscire dalla dissimulazione autoconsolatoria per fare i conti con la realtà reale; decide di occuparsi del tempo vero, non della memoria (ed in questo è antifelliniano), della normalità, non degli eccessi; ci propone la vita, non il suo riassunto.
Di passaggio in passaggio, cambiano le case, gli arredamenti, gli accessori, le automobili, l’abbigliamento, le pettinature, la musica. Pare di sfogliare un vecchio album di famiglia perso di vista dopo un trasloco. Arquette prende qualche chilo, si fa sorprendere trasandata; il marito ingrigisce e giovanileggia; la ragazza cresce di seno e deborda di culo prima di trovare il look che mimetizzi o valorizzi le sue robuste caratteristiche somatiche; il ragazzino passa l’età della brufolera. Tutti modificano qualche convinzione, smarriscono qualche illusione e patiscono o conquistano qualche distacco.
E noi, fuori dal cinema, ci ritroviamo a sbirciare la nostra immagine, fortunatamente confusa, riflessa dalla prima vetrina che incontriamo.

Chi non vuole indossare gli occhiali del pessimismo esistenziale può legger il film secondo un’altra prospettiva.
Può, chiarita la questione della degenerescenza inarrestabile, imparare ad accettare i cambiamenti, adattarsi senza nevrosi all’ordinarietà, evitare scosse (come fanno tutti i protagonisti del film), accontentarsi di una piccola vita rarefatta, senza trama, fatta di aspettative e frustrazioni; riderci sopra e ritagliarsi brevi spazi significativi, punteggiati di piccole impercettibili felicità.
E accettare di guardarsi un filmettino senza colpi di scena, coerente con la vita.




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