giovedì 25 giugno 2015

Youth (2015) di Paolo Sorrentino


De senectute doveva intitolarsi questo film, e non La giovinezza, che – incarnata nei folgoranti glutei di miss universo – sfila solo per un attimo (come Anita nel fontanone di Trevi) davanti agli occhi miopi di Michael Caine (92 anni suonati) e a quelli da topo di Harvey Keitel (che assomiglia un po’ a Polanski e di anni ne ha solo 76).
Dopo Moretti (Mia madre) anche Sorrentino riflette sulla dissoluzione della vecchiaia e della memoria: il primo, che forse la sente incombente, cincischia nevrotico ed vanitoso; il secondo, che la prefigura lontana, filosofeggia desolato e fellineggia come al solito. Ma in ambedue c’è qualcosa di fasullo, di artificioso: viene da pensare che sia un vizio tutto italiano, degli autori italiani, quello di girare film per esibirsi e non per far vivere emozioni, di mandare messaggi al milieu degli intellettuali snob che si atteggiano a cinefili, di solleticare la corteccia cerebrale dei critici, di offrire argomenti ai giornalisti della pagina degli spettacoli, far litigare le giurie dei festival e fomentare le polemiche che fanno bene al botteghino.
Sorrentino, fra i cosiddetti grandi, non è il primo a cedere a questi impulsi: troppi registi (ma anche molti artisti, scrittori, compositori,…), dopo aver dato l’anima e essersi espressi in alcune prime opere geniali (ascoltando la creatività compressa che “ditta dentro”), una volta assaggiato il meritato successo, si sono lasciati gradualmente sedurre dalle sirene della presunzione sino a farsi fagocitare dagli ingranaggi della produzione per partorire quello che vuole il mercato (“internazionale” of  course), quello che i consumatori si attendono, quello che la carriera impone.
Youth non si sottrae a questo meccanismo: per un’oretta svolazza a mezz’aria con quella dose di confusione che te lo fa sembrare alla ricerca disorientata di risposte sulla vita e sull’amore, sulla paternità e sull’arte, sulla dissoluzione dei legami e sull’inquietudine di chi sente vicina la fine. Poi arranca disorganico, delude le promesse e precipita pesantemente sotto il peso della sua esagerata artificiosità, eccessivo nei colori, sentenzioso nei dialoghi (che sono sostanzialmente un montaggio di monologhi, un’antologia dell’aforismo), triste nella sua consapevole e colpevole immodestia. Volendo parere un grande film, riesce a essere solo penosamente grosso, ingombrante, opulento, ponderoso, indigesto come un piatto con troppi ingredienti.
Volendo essere antinarrativo, riesce a essere confuso, soprattutto per l’eccessivo numero di sequenze oniriche (che, vabbè, sono inspiegabili per loro natura, ma sono tenute ad essere significative e organiche alla sia pur articolata complessità del discorso).
Volendo essere denso, diventa criptico per la fissazione nell’uso di messaggi subliminali (le simmetrie minimaliste degli interni, le esplosioni primaverili degli esterni, l’onnipresenza dell’acqua) e per le disseminate metafore (acuta quella della felicità, lontanissima per i vecchi, illusoriamente a portata di mano per i giovani, irraggiungibile per tutti).

Caine si salva, splendidamente inespressivo come sempre (e flemmatico come piace a noi, con le rughe come valore aggiunto). Keitel è il solito cialtrone, qui in disarmo.
La Fonda è un mascherone imbarazzante di disincantato cinismo e di forzata trivialità, ma da sotto il cerone trasuda muffa, non traspira la malìa suggestiva delle grottesche creature felliniane.
La sfilata dei personaggi di contorno echeggia proprio il bestiario di Fellini, esplicitamente omaggiato nella sconcertante apparizione a Keitel degli interpreti di tutti i suoi film sui verdi pascoli alpini insolitamente sgombri da musicanti mandrie in prova d’orchesta. Ma mentre Fellini ritrae archetipi organici al senso generale dei suoi film (pensate alla galleria di Amarcord), Sorrentino abbozza caricature (l’obeso Maradona, il monaco buddista che levita, l’alpinista rozzo, la massaggiatrice analista, l’équipe degli sceneggiatori creativi, l'aplombico inviato della regina, la coppia rancorosa) e le infila nella trama (trama?) in un susseguirsi di siparietti dissociati, senza farcene intuire la funzionalità, le connessioni, il significato. Ma si sa, nei Grand Hotel c’è sempre gente che viene... che va... tutto senza scopo... (come nel film di Goulding del 1932).

Un film da spiluccare, insomma, dove ognuno, come negli aperitivi in piedi, può trovare bocconi sorprendentemente saporiti. Ma si capisce da lontano che l’infilata kitsch delle guantiere zeppe è pensata per fare bella mostra di sé, con le tartine policrome e lustre fatte di pane flaccido e lamelle di salmone sotto vuoto.




sabato 6 giugno 2015

Mia madre (2015) di Nanni Moretti

Tutti i film di Moretti sono autobiografici, anzi ombelicali.
E tutti sono costruiti per raccontare i diversi passaggi esistenziali, le differenti fasi di crescita (si fa per dire) dell’autore: dalle confusioni adolescenziali di Io sono un autarchico del 1976, ai vitellonismi postsessantotteschi di Ecce bombo del 1978, fino all’età della creatività frustrata di Sogni d’oro del 1981, al periodo delle deviazioni nevrotico-maniacali di Bianca del 1984, alle crisi d’impotenza depressiva di La messa è finita del 1985, agli stalli ideologici di Palombella rossa del 1989 e de La cosadel 1990, per arrivare infine ai ripensamenti intimistici di Caro diario del 1993 e di Aprile del 1998 e allo sgomento per gli smottamenti etico-politici ne Il caimano del 2006.
Un percorso in discesa umorale, a ben riflettere, dal giovanilismo un po’ insolente all’avvilimento crepuscolare.
I primi segni di smottamento (o, meglio, di smussamento) il regista romano (incolpevolmente romano) li aveva manifestati in alcune sue ultime opere (La stanza del figlio del 2001 e Habemus papam del 2011) nelle quali aveva attenuato la sua insopprimibile supponenza (che lui sapeva travestire abilmente di noia esistenziale) e aveva dimostrato di saper riflettere con più onestà su alcune sue risapute insicurezze (le stesse che nei film precedenti aveva di volta in volta camuffato sotto maschere stravaganti o rappresentato con ironia autoassolutoria o sbandierato con la sicumera del fanfarone egocentrico).

L’età che avanza fa anche di questi strani scherzi; e qualche volta perfino a un presuntuoso può capitare di perdere i tratti sgradevoli dell’arroganza (caratteriale o intellettuale, di sostanza o di facciata) e trovarsi a fare i conti con la propria fragilità, magari per interposto personaggio.
Questo succede oggi a Nanni Moretti, il principe degli arroganti e dei narcisisti.
L’ossessione autoreferenziale, sempre assai evidente, non si è del tutto smorzata, ma col passare degli anni si comincia ad esprimere in forme differenti e si colora di tinte diverse, ovviamente sempre meno sgargianti; e gli arcobaleni dell’altezzosità giovanile, ingoiati dalla nuvolaglia e dal crepuscolo, si stemperano gradualmente fino ad assumere il grigiore cupo di Mia madre.

Inquesto ultimo film Moretti è sempre in vetrina, ovviamente, ma si analizza scomponendosi in due ruoli: come attore presta la faccia ad un personaggio un po’ defilato (quello di un ingegnere che, a scanso di equivoci, si chiama Giovanni); riversa invece la sua ingombrante nevrosi dentro ad un personaggio femminile, Margherita (Margherita Buy), sorella dell’ingegnere, che di mestiere – per chi fosse tardo a collegare – fa la regista cinematografica.
[Mi chiedo se questo sdoppiamento sia la messa in pratica di quella strana raccomandazione registica che Margherita ripete ossessivamente ai suoi allibiti attori invitandoli a "interpretare un personaggio ma pure stargli accanto"]. 
I due devono affrontare le ultime fasi della malattia della madre, una dolce vecchia signora, già insegnante emerita di latino e greco (di quelle che sanno il dativo di possesso, per intenderci). Mentre Giovanni accetta la realtà, razionale e meticoloso, e lascia il lavoro per accudire la madre preparandole perfino i pasti da portare in ospedale, Margherita non vuol capire o non accetta, rifiuta la realtà (“due passi, accidenti, sono due passi”), sbrocca, mette in crisi le sue relazioni affettive (coll’ex-marito, con il compagno, con la figlia adolescente, coi colleghi e coi collaboratore) e si concentra sul lavoro dedicandosi con accanimento sterile a dirigere un film di impegno civile e politico (già, di impegno civile, capito?, proprio nel momento in cui è assillata da privatissime questioni).

Il film – disseminato di picchi emozionali e siparietti comici – ha un substrato tragico: parla infatti della inevitabile decadenza che sopraggiunge per ragioni anagrafiche; della vita come graduale eterno abbandono; del presente che procede consumando il futuro ed estinguendo il passato. Parla dei giorni che avanzano (Domani è un giorno in meno) e rotolano, inghiottono prospettive e annichiliscono speranze; degli anni che trascorrono e lasciano dietro di sé paesaggi sempre più lontani e nebbiosi; dei ricordi confortanti che si perdono e si annullano; dei riferimenti affettivi che si consumano e svaniscono; delle vive emozioni dei tempi migliori che si prosciugano e avvizziscono. Parla soprattutto della consapevolezza di questo sfacelo e dell’incapacità a comprenderlo, dell’inefficacia dell’ironia o della filosofia e dell’impotenza ad affrontare la degenerescenza (questo dice lo smarrimento per un allagamento incontenibile, questo spiega la incomprensibile disperazione per una stupida bolletta introvabile).
Il tempo che cancella le persone che rappresentano il passato non solo fa il deserto dietro le nostre spalle ma riverbera i suoi effetti sul presente (come accadeva in Ritorno al futuro) ne guasta i rapporti, congela gli affetti, paralizza l’emotività, tarpa la creatività; e pregiudica il futuro, lo rende vuoto di attese e di speranze, inutile, indesiderabile. Come succede ad un albero al quale si tagliano le radici.
Non serve dimettersi dal lavoro quasi come per volersi dimettere dalla vita, o arrendersi come per non esserci (come fa Giovanni); non aiuta urlare e ribellarsi, inveire e scaricare le tensioni contro l’universo (come fa Margherita); e la realtà non la si modifica nemmeno singhiozzando con la testa sotto il cuscino (come fa la figlia di Margherita).


PS
La frammentarietà delle scene che si susseguono senza un apparente disegno narrativo è un po’ sconcertante; ad essere benevoli si può pensare che forse sia studiata e acquisti una sua funzionalità in un film che procede su più piste, accumula situazioni diverse per rappresentare il disorientamento, scavalla spesso dal reale all’onirico e alterna il tragico e il comico, con Turturro che gigioneggia alla grande con i suoi siparietti esilaranti interrompendo (non attenuando) il clima depressivo che attraversa il film.

Birdman (2015) di Alejandro González Iñárritu

Immaginate, di un teatro, il retropalco claustrofobico, costituito da un’infinità di quinte e fondali, porte vere e finestre finte, graticci di legno e pedane; e poi dietro ancora un labirinto intricato di passaggi male illuminati e scale che portano a ripostigli, anfratti e soffitte, soppalchi e ballatoi; e corridoi con file di usci che accedono a camerini (arredati ovviamente con tavolini per il trucco occupati da scatole di cipria, spazzole e parrucche e sormontati da specchi make up incorniciati da lampadine); e spogliatoi ingombri di costumi, camminamenti ostruiti da mobili, torri sceniche stracariche di fondali, ponteggi sospesi, argani, funi, cavi, cianfrusaglie sparse.
In questi spazi escheriani che paiono il magazzino di un raccoglitore compulsivo si sviluppa la storia raccontata da Inarritu.

Il protagonista è Riggan Thomson (Michael Keaton), attore di cinema che porta sulle spalle il peso della fastidiosa popolarità raggiunta interpretando Birdman, l’uomo-uccello, supereroe dai superpoteri (in realtà Keaton ha davvero interpretato, nel 1989, la parte di Batman nel film di Tim Burton). L’ex-divo è a fine carriera, ma vuole mettersi in gioco per scrollarsi di dosso lo scomodo costume che lo ha reso famoso ma non ha valorizzato le sue qualità attoriali: per questo investe soldi ed energie per portare in teatro – come sceneggiatore, regista e interprete – l’adattamento di un testo di Raymond Carver (What we talk about when we talk about love).
Ma liberarsi di Birdman non è cosa semplice per Riggan: il personaggio e l’interprete sopravvivono fusi e confusi, si confidano e bisticciano ingarbugliati. L’uomo-uccello, più che un avatar, è l’alter ego di Riggan. E le contorsioni della mente sono più intricate dei labirinti del teatro.
A complicare le cose entrano in gioco anche l'ex moglie, una figlia ex-tossica e un’amante incerta (che testimoniano anche i suoi fallimenti esistenziali di pessimo marito, padre inaffidabile e amante egocentrico); e si aggiungono i problemi legati alla produzione, all’allestimento dello spettacolo, alla scelta del cast, con attrici inquiete e isteriche, frustrate e cariche di ossessioni; e con un protagonista maschile arrogante e schizzato, scialbo nella vita e istrionico (vivo) sul palco (interpretato da Edward Norton che, guarda caso, nella sua carriera ha indossato gli stracci di Hulk).
Su questi sfondi e su questi personaggi, Inarritu accende la cinepresa e non la stacca per 120 concitatissimi minuti scanditi dal continuo martellare sincopato della batteria.

Il film insiste tutto, mi pare, sul tema dell’uomo e il suo doppio.
Riggan ci affascina (nel senso ambivalente del termine) perché, come noi, vive di ambiguità, macerato dalle contraddizioni:  insegue il successo ma fugge dal personaggio che gli ha dato fama; cerca l’autenticità ma non riesce a districarsi dall’ambizione; sogna di volare ma si muove convulso nei labirinti sotterranei del teatro (e in quelli dei suoi disorientamenti mentali e affettivi); immagina gli spazi ariosi e desidera librarsi nell’aria ma soffre di acrofobia, è frenato dal groviglio delle sue incoerenze e inchiodato a terra dal peso del vuoto che si porta dentro.
Alla fine - paradosso fra i paradossi – ritroverà il successo grazie al maldestro tentativo di rinunciare ad inseguirlo chiudendo la partita.

Il film termina su un surreale e incomprensibile salto nel vuoto (c’è da chiedersi what we talk about when we talk about flight).
Peccato!
Che perfetto finale sarebbe stato quello della scena paradigmatica in cui Riggan (che nell’affannosa ricerca di autoaffermazione sta tentando di fuggire dal cinema per rifugiarsi nel teatro) si ritrova chiuso fuori dal St. James Theatre e percorrere Times Square in mutande, coi passanti che in quel vecchietto spennacchiato riconoscono il grande Birdman e lo inseguono per l’autografo e lo fotografano coi loro smartphone per “immortalarlo” e ingabbiarlo inesorabilmente nella rete squallida dei social network.

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (Roy Andersson, 2015)

Il film, disperato e disperante, inizia con tre “incontri sulla morte” grotteschi, insopportabilmente caustici, atroci ed esilaranti nello stesso tempo: nel primo, un anziano crepa d’infarto per lo sforzo di aprire una bottiglia di vino mentre la moglie in cucina gli gira la schiena continuando a spadellare; nel secondo, una vecchietta agonizzante avvinghiata alla sua borsa lotta coi figli che tentano di sottrargliela; nel terzo, la cassiera di un bar offre agli avventori presenti la consumazione dell’ordinazione - già pagata - di un pover’uomo schiattato davanti al bancone.
A seguire, numerosi altri quadri slegati e incoerenti, ambientati in scenari metafisici, zeppi di personaggi assurdi imbalsamati in situazioni surreali: trentanove piani-sequenza simili a tableaux vivants, ripresi da una macchina fissa, in campo lungo; ambientati perlopiù in interni disadorni e freddi come camere mortuarie, in stanze nude riprese quasi sempre di sghembo; mentre i pochi esterni si chiudono su scorci di strade deserte delimitate da muri che paiono fondali di teatro.
Rari spicchi di cielo appaiono talvolta incorniciati da finestre sullo sfondo di scene lugubri o “casualmente” riflessi da vetrine.

Come sul palcoscenico di una recita di paese, i protagonisti stanno fermi al centro della scena, anonimi nei loro vestiti spenti, attenti a non girare le spalle al pubblico; sono circondati da comparse inutili, figuranti che fanno da sfondo senza interloquire; si muovono come automi, lenti e imbarazzati, gesticolando impacciati e fuori tempo; hanno facce scialbe; pronunciano senza convinzione frasi insensate o battute insignificanti, come se si attenessero a un copione scompaginato e incompreso; si rivolgono a interlocutori disattenti, in dialoghi fra sordi (come nelle pièce di Jonesco o di Beckett); e la recitazione raggiunge picchi di inespressività inimmaginabili, come nelle parodie dei film polacchi di Leonardo Manera.

Tutti i personaggi, nessuno escluso, trasudano un malessere esistenziale soffocato dalla rassegnazione e inondano l’aria di una dolenza ottusa e anestetizzata; tutti vivono in una condizione di aridità affettiva; tutti sono attanagliati da un intorpidimento emotivo, oltre che etico, proprio di chi è inerme di fronte alle contrarietà della vita.
Anche quelli che in alcune brevissime sequenze paiono testimoniare una possibilità di scampo dalla desolazione mandano messaggi ambigui: i bambini che giocano con le bolle di sapone e gli innamorati sulla spiaggia che sembrano recitare la normalità, inseriti in un contesto deprimente e saturo di cinismo, non fanno che sottolineare la fragilità della gioia, la solitudine degli amanti e la precarietà della vita.

Paradigmatici appaiono Jonathan e Sam, i personaggi che tornano più volte nell’infilata dei diversi episodi. I due - che di professione sono rappresentanti di commercio di “prodotti per far ridere la gente” - girano per il paese tentando di collocare la loro squallida merce, ma lo fanno senza convinzione, macerati dalla depressione; e fra i gadget proposti c’è un paradossale “sacchetto delle risate” che i due disgraziati presentano con un’espressione catatonica, da morti dentro.
Sublime l’idea di Andersson di inserire brevissimi ricorrenti siparietti nei quali presenta diversi personaggi al culmine della disperazione  che parlando al telefono dicono al loro interlocutore “sono contento di sentire che stai bene” (più sconvolgente fra tutti, il vecchio con una pistola in mano che sta per suicidarsi).

Il gioco della ricerca delle fonti di ispirazione o delle analogie potrebbe portarci a ripercorrere secoli di storia dell’arte e decenni di storia dello spettacolo: da Bruegel (con i suoi uccelli che sul ramo osservano il brulicare insensato degli umani) a Bosch (con le sue incredibili macchine di tortura) fino ad Hopper (per le inquadrature desolate e la rappresentazione della solitudine); da Bergman (altrettanto disperato ma meno cinico del compatriota Andersson) a Buñuel (per la sardonica rappresentazione della borghesia e per certe inspiegabili digressioni ucroniche) fino ai nostri ineffabili Ciprì e Maresco (con la loro estetica del degrado). 


Scorrono i titoli di coda, si accendono le luci in sala. Gli spettatori fluiscono verso le uscite con lentezza, e paiono usciti dallo schermo.
Mi guardo in giro e mi muovo con la terribile sensazione di essere osservato da un piccione imbalsamato, appollaiato da qualche parte fra i pannelli fonoassorbenti.

giovedì 9 aprile 2015

Turner di Mike Leigh (1014)



Il film racconta gli ultimi anni della vita di Turner, presentandoci il paesaggista inglese alla soglia della vecchiaia e al culmine della carriera.
Poiché lo scorcio di biografia non può riservare sorprese dal punto di vista narrativo e offrire particolari spunti per la trama, al regista non resta che evidenziare la mesta quotidianità dell’uomo privato che va verso la decadenza e riferire le idiosincrasie dell’uomo pubblico.
Il quadro è desolante: il vecchio Joseph Mallord William è un egotista, scontroso, burbero, asociale, incapace nutrire sentimenti o di mantenere legami affettivi: subisce infastidito le visite della vecchia e sfatta amante che non riesce a estorcergli affetti e sussidi per figlie e nipoti; e non è capace di un gesto gentile o di una parola di considerazione per la fedele serva che lo accudisce e gli si concede in frettolosi pastrocchi sessuali. L’unico affetto che coltiva è quello nei confronti del vecchio padre, aiutante di bottega, la cui morte lo lascia in un’ingrugnita depressione; la sola relazione apparentemente “normale” è quella che intrattiene con un’anziana affittacamere di Calais, con cui finisce per convivere (e tutti noi ci chiediamo come faccia una così garbata signora a sopportare un vecchio tanto selvatico e repellente).
Fuori di casa non va meglio. Turner è un misantropo asociale, un orso, e le uniche relazioni pubbliche che tiene, ovviamente problematiche, sono quelle col milieu accademico inglese della prima metà dell’Ottocento, un contorno di comparse simili a mummie composto da intellettuali incartapecoriti, critici boriosi, colleghi invidiosi, mercanti avidi, committenti neoricchi.

Dimostra del coraggio Mike Leigh a fare un biopic senza intreccio, ad affrontare il ritratto di un soggetto così complesso senza regalarci nemmeno un climax emozionale e a raccontarci il decadimento di un vecchio senza nemmeno tentare di farcelo piacere o di sollecitare perlomeno commiserazioni empatiche.
Capita raramente che un biografo infierisca sul suo “eroe” fino a suscitare nei suoi confronti disgusto e repellenza: in ben due scene – oltretutto agli inizi del film, così, tanto per mettere le cose in chiaro – il laido Turner viene accostato al maiale: la prima volta quando si ingozza di guancia suina lessa tagliando bocconi dalla testa di porco presentata intera nel piatto; la seconda quando grugnisce durante un veloce orgasmo con la serva appoggiata alla credenza.

Viene il sospetto che l’esasperazione dei toni abbia due scopi: quello di trasformare il personaggio in una caricatura e di rendercelo simpatico (un po’ come fa Molière con il misantropo Alceste o con l’avaro Arpagone) e quello di giocare “a contrasto”, prendendoci in contropiede, di caricare cioè al massimo la contrapposizione fra la finezza dell’artista e la grossolanità dell’uomo e di sottolineare con vigore che in Turner gli istinti animaleschi potevano (dovevano?) essere appagati in fretta per lasciar spazio alla vitale, irrefrenabile voglia di VEDERE (paradigmatica la scena del pittore che si fa legare in cima all’albero maestro di una nave per contemplare una tormenta di neve, come Ulisse e le Sirene).
C’è un momento – uno solo – nel film in cui Leigh azzarda una sintesi della bipolarità di Turner e cerca un punto di impacciata convergenza fra tensioni nobili e istinti, ed è quando mostra il pittore incantato davanti a una giovane pianista: ci si aspetterebbero avances grossolane, ma il frastornato pittore chiede alla timida artista di suonare Purcell e tenta di accompagnare con la sua sgraziata voce Il lamento di Didone.
 
Superba, nel film, la qualità pittorica delle sequenze: quasi una competizione di Leigh con Turner.
Turner – sappiamo – è ossessionato dalla luce, dalla rappresentazione della luce, della possibilità che la luce ha di svelare l’intima essenza della realtà, di modificare i paesaggi coi suoi riverberi, sconvolgere il cielo e le nuvole con barlumi e opalescenze, scompigliare il mare con sprazzi e luccicanze, trasfigurare gli oggetti rimarcandone o annullandone i contorni con l’imprevedibile gioco di ombre e chiarori.
Anche Leigh (assonante con light, nomen omen) si lascia possedere dalla stessa ossessione: accompagna (con riluttanza) il pittore nelle escursioni sulle spaziose spiagge e nelle sconfinate lande; lo presenta mentre schizza appunti frenetici di scorci e impressioni eccitate di crepuscoli o temporali, spesso stagliato in controluce come una silhouette barocca (o, meglio, citando Il viaggiatore sopra il mare di nebbia di Friedrich); lo segue nei docks lungo il Tamigi, sulle banchine di porticcioli ingombre dei banchetti di pescatori, nei vicoli dei quartieri urbani degradati (e qui ricorda le ambientazioni delle incisioni satiriche di Hogart); si sofferma (con compiaciuta insistenza) negli interni bui, su scalette ripide illuminate da tagli di luce espressionisti, in bugigattoli (dickensiani) rischiarati a pena da una soffusa luminosità lattiginosa.
Spesso le squallide stanze schiudono finestre abbacinanti su paesaggi – appunto – turneriani.
Spesso i tavoli illuminati di scorcio appaiono ingombri di oggetti domestici, barattoli e vasi, pennelli abbandonati (come nature morte).

Straordinarie le inquadrature: dai campi lunghissimi sulla brughiera (con cieli lividi) alle claustrofobiche riprese al chiuso; dai piani americani con prospettiva dal basso (a rendere grotteschi fino all’imbarazzo i borghesi della bella società londinese), fino ai primissimi piani impietosi sulle occhiaie dell’ex-amante, sulla psoriasi della serva, sui denti marci dello stesso Turner.

La lunghezza del film e l’inconsistenza della trama rendono il film impegnativo.
Ma la bella scena finale della locandiera-amante che, dopo la morte del pittore, netta meticolosamente i vetri della finestra affacciata sul mare ci risarcisce della fatica.



Hungry Hearts (2014) di Saverio Costanzo




Tutti i film raccontano di un qualche squilibrio; tutti sviluppano la loro trama attorno alla conseguenza di uno scompenso; in tutti il motore dei fatti o la temperatura delle relazioni sono costituiti da carenze o eccessi, da ossessioni o rabbie, passioni, devianze, disagi, infatuazioni.
Per convincersi di questo, basta una semplice verifica: prendete il Mereghetti, aprite a caso, cercate un film che conoscete e divertitevi a individuare da quale incidente critico scaturiscano i fatti, o quale squilibrio condizioni la vicenda, quale vizio capitale sia rappresentato. Se il bislacco giochetto lo fate in compagnia di amici cinefili, vi capiterà di bisticciare nel cercare la convergenza sulla diagnosi, resa sempre difficoltosa sia dalla presenza di un numero eccessivo e contraddittorio di sintomi, sia dalla pesante interferenza operata dalla lettura soggettiva (ché ognuno di noi, come sappiamo, ha un suo filtro interpretativo costituito dalla combinazione alchemica fra cultura, esperienza ed emotività).

L’agghiacciante film di Costanzo non si sottrae alla regola e si sviluppa attorno alla inquietante, patologica, infelice fragilità di Mina (Alba Rohrwacher).
Se l’inizio è esilarante, da commedia (Mina entra per errore nell’antibagno di una fetida toilette di un ristorante cinese, vi rimane chiusa dentro e lì conosce Jude - Adam Driver - vittima di una indisposizione atrocemente fetida); e se i primi sviluppi sono da love story (i due si piacciono, si attraggono, si coccolano con la sconsiderata tenerezza di ogni nuovo amore), il corpo della storia e la conclusione sono da triller (sottogenere psicotico).
Il passaggio dall’idillio all’incubo è segnato dall’inattesa maternità di Mina che risolleva dissesti antichi, carenze affettive per orfanezza precoce, impacci esistenziali, precarietà lavorative, immaturità sentimentali. La gracile e affascinante adolescente diventa donna e precipita in un groviglio di disequilibri: l’inquietudine si manifesta prima con l’ossessione per il parto naturale e il rifiuto delle cure ostetriche, poi con l’attaccamento simbiotico al neonato, con smanie iperprotettive (paraspigoli a mobili e termosifoni per un bambino che nemmeno gattona) e con la presunzione di bastare in assoluto; poi ancora con l’assurdo salutismo che si traduce in un veganisimo integralista e delirante (con l’orto biologico sul terrazzo che si affaccia su una caotica strada di Brooklyn) ai confini con l’anoressia; poi con la radicale opposizione alla pediatria; infine con la scelta agorafobica di escludere il mondo ostile e infetto (smog e radiazioni) e di isolarsi per evitare il Contagio, finendo annegata nei propri deliri mistici e intrappolata nei miasmi del proprio dissesto psicotico. Viene da ripensare alla allegra ma allegorica scena dell’incipit che si svolge nei putridi cessi di un ristorante cinese a New York, ombelico paradigmatico della contaminazione universale (e viene pure da chiedersi, en passant, che ci facesse Mina in un ristorante cinese di terz’ordine).

Il povero Jude ama in egual misura il bimbo che deperisce e la madre alla deriva.
Vorrebbe salvare l’uno e l’altra. Prova a mediare, cerca di cucire gli strappi, di cauterizzare, di proteggere il nido; insegue soluzioni ricorrendo a sotterfugi. Ma non riesce a convincere o a imporsi con la pallida, indifesa, fragile, anoressica Mina che dispiega un’energia incontenibile, una resistenza inimmaginabile, un’ostinazione selvatica da belva ferita capace di sfoderare gli artigli.
Anche Mina ama Jude, e forse ne ama la normalità; ma è uterinamente legata al figlio, che considera un predestinato (come Rosemary’s baby?). Non vede altro. Non sa vedere altro. È sommersa, viene inghiottita, si abbandona nel garbuglio delle sue ossessioni, fino a perdersi.

Saverio Costanzo sottolinea la discesa nel delirio con riprese ossessive (talvolta eccessive, e forse anche un po’ furbette, da mestiere). In alcuni passaggi i movimenti di macchina sono frenetici e le inquadrature appaiono sporche, sfocate e deformanti (con fisheye che consegnano immagini quasi escheriane); le ambientazioni sono claustrofobiche irrespirabili (a cominciare da quella del bagno del ristorante cinese, piccolo paradiso, fino a quella a quella dell’appartamento newyorkese, microcosmo infernale). Il montaggio è impulsivo; i dialoghi diradano con l’infittirsi della sventura (geniale!); la impercepita colonna sonora di Nicola Piovani è dolce, quasi a contrasto con la crudezza a cui fa da sfondo (indovinato e struggente appare l’inserto di “Tu si’ ‘na cosa grande pe’ mme”). 

Gli eccessi formali sovraccaricano l’efficacia della narrazione ma – apparentemente – non stabiliscono categorie di giudizio. Il regista assiste neutro al dissidio della coppia, con Mina che scivola nel parossismo e Jude che si affanna impotente, ma non emette sentenze esplicite, schiva grezzi manicheismi, elude la trappola dello schierarsi; osserva con compassione il dispiegarsi della tragedia e registra l’impotenza dell’amore (o la potenza distruttiva dei legami) facendosi partecipe (e facendoci partecipi) dell’angoscia dei suoi personaggi.
Forse si tratta di una neutralità apparente, di facciata; così come apparente, di “volontà”, sembra l’incredibile pazienza (e la pietà) di Jude che ad un certo punto, esasperato anche dal deserto relazionale e istituzionale che lo circonda (dall’esterno non arrivano altro che blandi suggerimenti e disinteresse), non trattiene l’insofferenza e molla all’ostinata Mina un ceffone, inseguendo soluzioni impulsive e sbrigative, ritenute (a torto) più efficaci della sfibrata empatia.

Proprio questo ceffone segna un punto di svolta e costituisce un indizio che anticipa lo scarto comunque improvviso e atroce che sblocca e chiude la storia.
Un film del genere non fa presagire lieti fini. Ma nessuno poteva pronosticare “quella” sorprendente soluzione finale. Per un momento viene da pensare che l’esito sia troppo sbrigativo e semplicistico a fronte della complessità della tragedia (il deus ex machina appare sempre come una soluzione troppo comoda, mai convincente) e che un finale sospeso avrebbe potuto essere più coerente (e inquietante).
Mentre però scorrono i titoli di coda (in cauda venenum) noi poveri inermi spettatori-partecipi ci rendiamo conto della paradossale condizione in cui siamo stati trascinati e ci assale un gran disagio (un groppo, un senso di colpa, una immensa vergogna) nel percepire di aver nutrito dell’insofferenza (anche un pochino misogina) verso la “matta”, di aver soffocato un “finalmente, ecchecazzo!” nella scena del ceffone e di aver assistito alla “eliminazione” del problema con una vaga sensazione di sollievo. 


Non è mai del tutto inutile o banale un film che spiazza e instilla dubbi e riesce a mettere in luce l’incoerenza fra pancia e testa.