venerdì 6 giugno 2014

Bambini del cielo di Majid Majidi (Iran 1997)


Ali, un ragazzino di una decina di anni che vive in un povero quartiere della metropoli iraniana, passa dal calzolaio a ritirare le scarpette della sorellina Zohre – le uniche che la piccola possiede – e tornando a casa le dimentica sui banchi del fruttivendolo. Quando se ne accorge è troppo tardi: un robivecchi è passato e le ha caricate sul carretto insieme a mille altre cianfrusaglie.
Inizia un complicatissimo balletto fra i due fratellini che vogliono nascondere la cosa in famiglia per non dare dispiaceri e preoccupazioni alla madre (che è di salute malferma e deve badare a una neonata) e, soprattutto, per non incorrere nelle furie dell'irascibile padre che - non guadagnando abbastanza per mantenere la famiglia, pagare l’affitto e garantire le cure alla moglie - non è certo in grado di comperare un paio di scarpe nuove a Zohre.
Facilitati dal fatto che le scarpe, in Iran, restano fuori dalla soglia di casa, i due piccoli riescono a farla franca; avendo poi orari di scuola diversi (i maschi e le femmine, per motivi logistici oltre che religiosi, si avvicendano nel piccolo edificio scolastico) trovano il sistema, per frequentare le lezioni, di condividere le scalcinate simil-Superga di Ali scambiandosele – scarpe vs ciabatte – in un vicolo defilato a metà del percorso casa-scuola.

Le condizioni di vita dei poveri quartieri della città, in stridente contrasto con l’ostentata opulenza dei ricchi residenti nei quartieri alti (larvatamente denunciata dal regista, che non è fra quelli messi “all’indice” dal regime integralista di Teheran), ricordano molto quelle della nostra piccola Italia degli anni Cinquanta. Non a caso questo film del 1997 richiama alla mente le atmosfere del cinema neorealista di Zavattini e De Sica (in particolare Ladri di biciclette).
Analogie affiorano nell’ambientazione proletaria e nella predilezione minimalista per la quotidianità, nella presa diretta della realtà e nella visione pessimistica, nel ruolo protagonista dei bambini (dalla cui altezza si osserva l’assurda società adulta) e nell’uso di attori presi dalla strada, nell’inserimento di intensi primi piani per esprimere stati d’animo e perfino nell’uso “partecipante” della camera.

Il film è lieve, garbato, delizioso, confortante.
Da vedere, come pausa fra la visione di film che rappresentano le quotidianità complicate e le prospettive catastrofiche della nostra civiltà.




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