mercoledì 28 maggio 2014

Più buio di mezzanotte - di Sebastiano Riso

Il film prende le mosse dall’esperienza di Davide Cordova, la drag queen che, col nome d’arte di Fuxia, ha animato uno storico locale gay-lesbo-trans di Roma, e racconta la storia dell’emancipazione di un Davide quattordicenne che, nella Catania degli anni ‘80, scopre la propria omosessualità e decide, contro tutti, di provare a viverla.
Alla ricerca di un’identità non asfissiata dall'aria domestica e di un equilibrio compatibile con la sua percepita “anormalità”, il ragazzo compie un gesto di coerenza e una scelta di libertà allontanandosi da casa e cercando rifugio sull’altra faccia della luna, nel quartiere più fatiscente e malfamato della città.
Lascia dietro di sé una madre tenerissima (che sta diventando, emblematicamente, cieca) e un padre incapace di capire (che lo costringe a cure ormonali per guarirlo dell’inconfessabile malattia), si avvicina non senza titubanze ad alcuni ragazzi già “emancipati” (o “perduti”, a seconda dei punti di vista) che frequentano i giardini di Villa Bellini e finisce per seguirli fra i vicoli di una casbah degradata dove ogni diversità è consentita, così come viene accolta ogni incongruente eccentricità, accettato ogni improbabile abbigliamento o atteggiamento, ammessa ogni scelta di vita.
Determinato e fragile, Davide galleggia dapprima incerto sui confini di due universi – quello in cui ha nidificato nel suo passato (rimpianto/detestato) e quello che gli si prospetta davanti (temuto/desiderato) – e compie infine il passo decisivo, paga un suo doloroso pegno e sceglie di immergersi nelle acque torbide dell’emarginazione fatta di furtarelli e prostituzione, superate le quali potranno forse avverarsi le sue confuse fantasie adolescenziali. 
Ma quel che raccoglie – almeno in un primo momento – non è altro che malessere e disorientamento, fame, violenza che deturpa i sogni, disordine, bellezza sciupata. 

Il film qui si ferma.
Quel che interessa al regista non è l’esito della metamorfosi, ma il travaglio dei suoi meccanismi in un contesto ostile. Il racconto del processo è molto più interessante dei risultati. 
Il trentenne Sebastiano Riso, di Catania, nel trattare una materia così delicata, mostra mano sicura e idee chiare.
Notevole, per esempio, la scelta di evitare astute e spregiudicate ricerche d’effetto: conoscendo il mestiere, calca la mano con pittorica efficacia per rilevare le ostentate esibizioni della scalcinata armata Brancaleone, sa documentare con allegria la spettacolarizzazione che i ragazzi fanno del proprio corpo iperabbigliato (la sfilata da circo che all’inizio del film segna l’ingresso di Davide nell’universo dei dissimili è felliniana, onirica, esibizionista nel suo andamento trionfale e triste). Ma sa frenare, sceglie di frenare, quando entra in gioco l’intimità o quando a essere messe in campo sono le fragilità affettive o le inquietudini erotiche; la telecamera allora si colloca a rispettose distanze, cerca interposti diaframmi e cortine e vetri smerigliati, o specchi che rimandino immagini indirette e frammentate.   


Il picco emotivo – a conferma di questa reticenza sapiente – lo si ha, a mio parere, non tanto nella violenta scena dello stupro-iniziazione, o nella struggente scena in cui la madre di Davide bacia le sue ferite, o in altre scene oggettivamente drammatiche o melodrammatiche, ma nella breve sequenza in cui Davide, ormai “libero”,  incontra la madre (abbandonata con sofferenza) quasi completamente cieca, la abbraccia e si lascia disperatamente abbracciare, viene trascinato su un autobus che dovrebbe riportarlo a casa e lì, seduto dietro alla mater dolorosa, le sussurra all’orecchio un lungo discorso fatto di parole – indicibili, inudibili, intuibili – che determineranno il definitivo, pacato, condiviso distacco.


NOTA SULLA COLONNA SONORA

A rappresentare l’esasperazione di chi vuole prendere le distanze dalla grigia e quieta normalità, i colori nel film sono carichi e le musiche, diegetiche, pescano nel repertorio della coloratissima Donatella Rettore, personaggio eccentrico, icona dei trasgressori e dei non omologati, che ha anticipato e ispirato, fin dagli  anni ’80, altre eterodosse (fra cui Madonna) molto meno originali.
Nelle canzoni della Rettore, la piccola comunità di sbandati (che comprende un ragazzo che dalla cantautrice ha preso il nome facendosi tatuare l’iniziale sul bacino) trova verbalizzate le più confuse sensazioni, le paure e i desideri, la rabbia e le scelte dolorose, le rivendicazioni e il bisogno di quiete, la voglia di vivere e l’istinto di morte.
I ragazzi di strada amici di Davide conoscono, parola per parola, i testi espliciti delle sue canzoni. Ne ricordiamo alcune, per aiutare a comprendere le atmosfere del film e gli umori dei suoi protagonisti.

In Splendido splendente (1979), stampato su un vinile completamente rosso, la Rettore canta: "… anestetico d'effetto e avrai una faccia nuova / grazie a un bisturi perfetto, invitante, tagliente… / Come sono si vedrà / uomo o donna senza età / senza sesso crescerà / per la vita una splendente vanità" e “Io sorrido eternamente grazie a un bisturi tagliente”.
In Kobra (1980): "Il kobra non è un serpente / ma un pensiero frequente / che diventa indecente / quando vedo te … / Il kobra si snoda, si gira m'inchioda/ mi chiude la bocca, mi stringe e mi tocca".
In Gaio (1980): "Scotta la pista di plastica rossa / Gaio saltella e si prende la scossa… / Gaio, che beve le sue ore col cucchiaio/ Gaio, che perde il suo calore sotto il saio".
In Benvenuto (1980): "Benvenuto uomo/ in gola e nel palato".
In Lamette (1982): "Dammi una lametta/ che ti taglio le vene/ ti faccio meno male del trapianto del rene".
In Dea (1986): “È un modo che dicono sia la mutazione da farfalla in dea”.
Ed infine in Amore stella, che è il leit motiv dell’intero film: “Io / che sono niente nullità / chi sa che Dio diventerei / se in quel che vivi fossi anch'io / se quel che fai fosse un po' mio / da te mi lascerei bruciare / peggio all'inferno anche più giù / se proprio in fondo fossi tu. / Per quanto buio il buio sia / di tutta questa vita mia / senza guardare me ne andrei / tranquilla tanto non cadrei / per quanto il mondo sia paura  / paura io non avrei più. / La forza mia saresti tu!...”.


domenica 4 maggio 2014

Ogni amore

Ogni amore si crea la propria leggenda. O, meglio, non la crea, perché nulla nasce dal nulla, la elabora dal fraintendimento, dall'enfatizzazione, dalla mistificazione di qualche dato di fatto giusto.
...
Il ricordo non tradisce la minima smagliatura, com'è appunto dei ricordi posticci al riparo dall'erosione dei dubbi, dallo sconquasso delle verifiche, dalla cancellazione delle smentite.

Oreste Del Buono, I peggiori anni della nostra vita, Einaudi, 1971.