domenica 28 luglio 2013

Pietà (2012) di Kim Ki-duk

Kang-do è un feroce teppista che riscuote i debiti per conto di uno strozzino. Vive da solo nello squallido appartamento di una casa in decadimento.  Il quartiere in cui si muove è in attesa di essere demolito, isola di povertà e degrado circondata dai palazzi pomposi di cemento e cristallo della metropoli aliena che dilaga. I suoi debitori si trascinano come lui nella miseria come topi di fogna intrappolati in lavori subumani, incapaci di alzare la testa, indeboliti e impotenti, rassegnati di fronte al destino immodificabile, chiusi in una gabbia in cui è impossibile sopravvivere, da cui è impossibile evadere.
Kang-do, nato e abbandonato in questo marciume, è figlio e conseguenza di questo disfacimento. Nessuno lo ha accudito, da nessuno ha avuto cure e affetti; per nessuno ha affetti e attenzioni: è selvatico, misantropo, chiuso, afasico, ottuso, impietoso. Se i debitori dello strozzino non rispettano la scadenza, li massacra freddamente, li strazia senza pietà, li sfigura e li mutila per incassare i soldi dell’assicurazione.    
Un giorno si presenta da lui Mi-sun, una piccola dolce donna che dice di essere sua madre. Con tremore ed afflizione gli chiede perdono per averlo abbandonato, con ostinata dolcezza tenta di offrirgli le tenerezze negate, con pazienza accoglie la sua rabbiosa disperazione. L’implacabile seviziatore non le crede, la maltratta, la violenta, la caccia: lei insiste, subisce, ritorna; si addossa le colpe della infelicità e della cattiveria del ragazzo, accetta la condanna dell’emarginazione e del disprezzo, ma si installa silenziosa in casa, riassetta, cuce, fa la spesa, imbandisce i pasti e svolge quieta le umili mansioni di una madre premurosa senza pretendere altro.
A poco a poco l’irremovibile Kang-do cede. La sua incolmabile rabbia, che non è altro che ineliminabile disperazione, trova in quella pacata presenza femminile il risarcimento per amorevolezze mai conosciute. Non si lascia andare, non fa trapelare emozioni, non arriva ad esprimere sentimenti: la sua coriacea anaffettività non glielo consente; ma si abitua alle premure e si affeziona a quell’ombra muta fino al punto di accorgersi che non vuole, non può fare a meno di lei.
Qualcuno (?) entrerà nelle crepe di questa imprevedibile fragilità per applicare la pena del contrappasso, compire la vendetta ed infliggere a Kang-do intrappolato una condanna risolutiva, uccidendogli l’anima.

Appare evidentissima, in una lettura in chiave socio-politica, la feroce critica al mito del progresso e della modernità che infesta il mondo senza rispetto per gli individui, le culture tradizionali, le relazioni, la giustizia sociale; inappellabile è la condanna ad un regime che celebra i fasti del capitalismo globale sommergendo i deboli e lasciandoli ai margini del benessere, massacrati da sacrifici inutili e dissanguati da mafie e usure. L’ambientazione cupa, le inquadrature claustrofobiche e i colori lividi esasperano la disperazione di questa accusa.

Speculare a quella sociale è la rappresentazione delle interiorità. Anche le anime dei personaggi sono perse, si portano dentro il deserto, sono immerse nell’infelicità e oppresse dalla consapevolezza di non avere sbocchi. I poveri lo sono fino all’ottundimento incosciente. Kang-do è inconsapevolmente devastato dalla disperazione che sfocia in furia disumana. La donna nasconde, sotto una maschera di pietà, la voglia di vendetta di un’anima morta dentro, impietosa e spietata fino alla follia.

La storia è disarmonica e un po’ sconclusionata, la trama è improbabile e svolta in modi troppo ruvidi ed essenziali, le vicende appaiono spesso incongruenti, i personaggi hanno evoluzioni incomprensibili e sono tratteggiati sbrigativamente con enfatica crudezza, senza sfumature; il pathos sconfina nell’eccesso; i dialoghi a tratti sono disturbanti per dei didascalismi inutili e quasi ridicoli, le musiche in alcuni momenti debordano. Il manifesto poi, che storpia il titolo originale aggiungendo un accento ed una citazione sviante, è davvero deplorevole.

Ma l’insufficienza di rifiniture compromette appena la carica del film che comunque mantiene l’andamento insensato di una tragedia greca, l’inesplicabile assolutezza di un’epopea, l’immenso fascino illogico del mito (la nemesi, Edipo, Eros e Thanatos, la catabasi senza ritorno) che tocca le corde irrazionali del profondo e sconcerta.
Nel film – insolitamente debordante per l’essenziale regista coreano – si intrecciano aggrovigliati i temi del delitto e del castigo (Dostoevskij), del male (anzi, del Male) e dell’espiazione, della colpa e della ritorsione. Con l’aggiunta di variazioni sull’amore perduto e sull’amore negato, sull’odio e sul sacrificio, sulla dannazione e sulla redenzione. E poi c’è incomunicabilità, esclusione, rabbia, sconfitta, segreti e bugie, ambiguità, morte.  Manca solo, appunto, la pietà.









martedì 23 luglio 2013

La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino

Si esce dalla sala con la sensazione ubriaca di aver assistito ad un esercizio di stile accumulatorio e debordante, barocco-partenopeo, sconnesso e ogni tanto surreale, pretenziosamente disorganico ed esagerato, troppo saturo, troppo intenso, troppo tutto.
Ma poi ci si pensa e nasce il sospetto che sia il troppo, appunto, (ed il vuoto) a costituire l’essenza del film.

Jep Gambardella (Toni Servillo) è un ex-romanziere che come Salinger vive di rendita per un successo giovanile che lo ha immesso nel giro della “bella” società romana, piccolo-borghese e pseudo-intellettuale.
Ha però sessantacinque anni suonati e si ritrova stanco e disincantato a consumare giornate assurde, bazzicando una cinica microsocietà di ex come lui (o quasi ex) che tamponano le diverse decadenze con la smania d’esserci, camuffano il vuoto sotto le maschere avvizzite di se stessi, esorcizzano l’anonimato come la morte, si eccitano di eccentricità quotidiane, si alimentano bulimicamente di voglie consunte, escogitano consuetudini per fuggire la noia delle consuetudini, costruiscono occasioni per uscire e fingono di vivere per non vedere la devastazione che dentro li disgrega, fra feste freacks con trenini cafonal e sniffo, vernissage radical chic e cene in piedi, escort e madri teresedicalcutta, shopping compulsivi e funerali eccentrici, celebrazioni della subcultura e allucinazioni èlitarie, in un cicaleccio continuo, maligno e inconcludente, inutilmente caustico.
Ai margini di questo universo alla deriva spuntano, rare e marginali, figure quasi “normali” (Ferilli e Verdone, per esempio), capaci di residue emozioni, che nella loro candida ingenuità appaiono però patetiche quanto gli schizzati che le circondano.
Jep è vagamente consapevole della sua incompiutezza e del declino: per sopravvivere alla disperazione dell’innegabile vecchiezza e dell’impossibile rigenerazione si rifugia nella nostalgia di un flashback adolescente; sa – innanzitutto – che non ha più nulla da scrivere; e sa che per scampare non gli basta quell’eccitazione frenetica che fa durare gli altri (e che lui disprezza senza saperne prendere le distanze): per questo si lascia intridere da un sordo sconforto, attraversa i luoghi dell’inutilità con in corpo una rabbia stanca e non resiste (residuo di coscienza?) all’insopprimibile voglia di scoprire le carte, svelare i trucchi, rompere gli specchi, scoperchiare il fetore degli altri forse anche per annusare masochisticamente il proprio.
Continua a far parte di quel “fracico” mondo, ma si lava la coscienza comportandosi da osservatore esterno, infelice ed annoiato; e si fa entomologo distratto che stuzzica le sue vittime con bisturi ed elettrodi, senza cautele o reticenze, solo per vederne le reazioni, o forse per controllarne la residua vitalità, non certo per trasferire in loro la sua esclusiva ed escludente consapevolezza o per tentare improbabili redenzioni.

La macchina da presa, quando inquadra le persone (o, meglio, i personaggi) è assalita dalla frenesia di invadere visi disfatti e corpi artefatti, di smascherare derive e meschinità, di scrutare vacuità vertiginose e beceraggini; l’obiettivo intrappola i bipedi come topi nel labirinto, colleziona casi patologici come un manuale di psichiatria, fa trapelare il senso di morte; quando invece esplora gli spazi, ricerca lo struggente incanto di angoli nascosti, tramonti immensi e fascinosi, palazzi e chiese, fontane e giardini che fanno da contraltare con la loro “grande bellezza” al brulicume osceno dei parassiti.

Sorrentino insegue in questo film ispirazioni ed ascendenze nobili sia letterarie che cinematografiche.
Fra le pieghe del film si intravvede l’infelice Leopardi col suo sentimento del nulla, Flaubert (per lo stile dispersivo “che fa parlar le cose” ed il tema dello svanire dei sogni), Sartre con la sua ossessione di incompiutezza (“L’essere e il nulla”), Camus per il senso dell’assurdo che incombe e la condizione di alienazione; ed infine il disperato Céline, espressamente citato (“Viaggio al termine delle notte” sarebbe stato un magnifico titolo per questo penoso e magnifico film).
Fra gli autori di cinema a cui Sorrentino si ispira, anche con esplicite citazioni, troviamo Scola (quello de La terrazza che galleggia come il Titanic prima di essere inghiottita dagli abissi, quello che sa scorticare come nessun altro la vacuità degli intellettuali), ma troviamo soprattutto il Fellini – quello de La dolce vita e di Roma – parafrasato nel protagonista (Jep è un Marcello, ancora più vecchio e stanco, più annoiato e disgustato), replicato nel clima di decadenza (qui ai limiti della putrefazione), richiamato nelle inquadrature e nel montaggio, riecheggiato nella galleria dei personaggi bislacchi e grotteschi (suorine, cardinali insignificantemente emaciati, femmine pingui) ed in alcune scene onirico-paradigmatiche (mostri marini, sculture gigantesche, apparizioni di irreali giraffe e inquietanti trampolieri, peregrinazioni notturne).

Una scena paradigmatica: quella estenuante della repellente sfilata dei visi prolassati davanti al chirurgo estetico che impugna la siringa di tossina botulinica, come in un horror di serie b.
Una figura sublime: quella onnipresente e defilata del poeta, ombroso e taciturno.