sabato 19 gennaio 2013

Il treno (di George Simenon)


1940. I Tedeschi invadono il Belgio e si preparano a dilagare in Francia. Dalle Ardenne e da tutte le zone di confine destinate a diventare zona di guerra, parte un imponente flusso di profughi.
L’elettrotecnico Marcel con la sua famiglia riesce a trovar posto su un treno diretto verso ovest: la moglie incinta e la figlia su un vagone passeggeri, lui stipato con altri sconosciuti su un carro-merci che lungo il tragitto sarà sganciato e dirottato su altri percorsi.
La forzata nuova condizione di “deportato” colloca Marcel in una situazione incredibilmente ambigua: da una parte questo uomo qualunque si ritrova ingabbiato e spersonalizzato come un recluso, un relitto alla deriva, uno zombie passivo  incapace di reagire, sballottato e rassegnato al destino; dall’altra, la insolita situazione, proprio in virtù dello sganciamento dalla quotidianità (e dalle regole che la quotidianità impone),  gli fornisce l’occasione per vivere una esperienza di evasione dalla scialba quotidianità (che è la sua vera, immateriale, tragica prigione).
Il vagone che lo ospita diventa un universo separato nel quale, dopo il caos iniziale, sbocciano relazioni, si determinano ruoli.

(“Si era prodotta una frattura. Ciò non significa che il passato non esistesse più, né tanto meno che rinnegassi la mia famiglia e avessi smesso di amarla. Semplicemente, per un tempo indeterminato, vivevo in un'altra dimensione, i cui valori non avevano nulla in comune con i valori della mia vecchia vita.”- pag. 87)

(“Nè passato, nè avvenire. Solo un fragile presente, che divoravamo e assaporavamo al tempo stesso. Ci rimpinzavamo di piccole gioie, di immagini, di schegge di luce che, certamente, avremmo conservato per tutta la vita.” - pag. 123)


Assistiamo al timido manifestarsi di un’attrazione fra Marcel e Anna, una giovane profuga ceca.
Due solitudini che si annusano e si cercano: Anna, ebrea di Praga appena rilasciata dal carcere; Marcel, che è stato rinchiuso a lungo in un sanatorio ed ha sofferto ancora più a lungo la reclusione per un’insoddisfatta routine matrimoniale.

(“Vissi lassù 4 anni, un po' come sul treno; voglio dire che il passato e l'avvenire non contavano, né contava quello che succedeva giù nella valle, né tanto meno nelle città lontane.” - pag. 39)

Le chiavi di lettura del libro sono almeno due: quella sentimentale che vede il dispiegarsi della tenerezza e quella cinica che vede il trionfo dell’ineluttabilità, lo sgretolarsi della capacità dell’uomo a modificare il proprio modo d’essere, se non il proprio destino. 
Simenon gioca abilmente sui due registri, e ciascuno è libero di scegliere se abbandonarsi all’emotività dolce e leggera (assumendo la toccante storia come un sofisticato elisir d’amore) o abbattersi al pessimismo circa la libertà di scelta degli umani (non allontanando da sé l’amaro calice del nichilismo). Ma l’autore – secondo me – propende decisamente (anche se forse non del tutto consapevolmente, considerata la sua prolificità e la sua velocità di scrittura) verso visione amara dei fatti.
Chi conosce il romanziere francese sa che la sua crudeltà non ha limiti. In questa opera, eccezionalmente, lascia la penna nelle mani di Marcel, gli fa raccontare in prima persona la sua avventura e gli fa persino esprimere le circostanze e le ragioni di questa lunga confessione (trascritta segretamente su un diario per dimostrare a se stesso di essere capace di vivere e per offrire ai figli, in futuro, una diversa e meno logora immagine di sé).
Ma in ogni pagina e con mille dettagli Simenon lascia trapelare che l’avventura insolita (che dovrebbe ridisegnare il profilo di un uomo mediocre) si sviluppa non per volontà dello scialbo Marcel, ma a causa della precisa determinazione della donna (che prende l’iniziativa, decide per lui, crea le condizioni del rapporto, gestisce questioni logistiche e sviluppi affettivi).
Marcel, sul treno e nel campo profughi, come in tutta la sua vita passata e futura, si lascia trasportare dagli eventi, non ha il controllo della situazione, lascia che le cose accadano (“forse non eravamo ancora arrivati all’indifferenza, ma ciascuno di noi aveva rinunciato a pensare in prima persona”), vive la precarietà: non sa dove lo porta il treno (e in certi momenti non gliene importa), non sa come si evolverà il suo rapporto con Anna, accetta l’avventura, ne subisce la conclusione (“finisce tutto in una bolla di sapone”). La sua voglia di riscatto si dispiega solo grazie all’accidentalità; l’intimità di cui gode non è progettata ma imprevista, non cercata ma trovata.  

L’unica decisione di Marcel, presa dopo la fine penosa della sua storia, sarà quella che ne sancirà la conclusione tragica.

I figli di Marcel, come noi, conserveranno di lui il ricordo di una persona abulica, un uomo triste senza passato e senza futuro, un insoddisfatto che non ha saputo scegliere una vita alternativa, non ha saputo afferrare una transitoria e probabile occasione di felicità, non ha accettato di destabilizzare una vita insoddisfacente.

(“Soffrivo di non poter raggiungere l’impossibile.”)

La storia di Marcel è la storia di un vinto, in sintesi.
Uno sconfitto verso cui provare, come verso sé stessi, compassione.



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