giovedì 31 gennaio 2013

La bicicletta verde, di Haifaa Al-Mansour (2012)


Leggo che la regista Haifaa Al-Mansour per girare alcune scene nelle strade di Riyad in Arabia Saudita (dove, sia detto per inciso, non esistono sale cinematografiche), ha dovuto impartire ordini alla troupe con un walkie-talkie, restando chiusa dentro un furgone: possiamo immaginare con quanta determinazione abbia voluto questo film in cui si racconta di una ragazzina che, contro tutti, vuole una bicicletta, disdicevole per il suo sesso, risoluta a sfidare “alla pari” il suo amico Abdullah.
La trama gira attorno alle peripezie di Wadjda, una dodicenne araba che non solo affronta le severe proibizioni islamiche e ingaggia un conflitto con la madre per comprare la bella bicicletta verde esposta fuori dal bazar sotto casa, ma si ingegna anche trovare i soldi e, dopo aver raggranellato pochi spiccioli nei più vari modi (vendendo braccialetti e nastri piratati e facendo da intermediaria fra una ragazza e il suo corteggiatore), decide di partecipare ad una gara di lettura del Corano nella quale è in palio la somma di denaro che serve.
La testarda ragazzetta porta avanti la sua garbata ma inflessibile ribellione contro l’assurdo maschilismo della madre e della maestra senza assumere atteggiamenti di sfida verso la società discriminante: ascolta musiche vietate ma non lancia proclami rivoluzionari, calza le sue sneakers colorate con disinvoltura senza farne una bandiera di contestazione. Va semplicemente per la sua strada e non si lascia scoraggiare da niente. Usa il Corano per sfidare le proibizioni che le vengono imposte in nome del Corano, ma lo fa con spontanea naturalezza, senza nutrire il più pallido sospetto di aprire la strada all’eresia.
La lezione che impartisce è rivolta principalmente alle donne: alla madre, innanzitutto, che vive docilmente sottomessa al marito, ma non riesce a trattenerlo quando viene abbandonata per una donna più giovane; alla maestra, che esibisce ipocritamente abbigliamenti ed atteggiamenti conservatori ma non rinuncia a indossare, sotto i veli islamici, scarpe eleganti e nasconde una relazione proibita; alla direttrice della scuola che non accetta le più innocenti manifestazioni dell’adolescenza e punisce le sue ingenue alunne con morbosa severità.
L’obiettivo della regista donna è la donna: Haifaa Al-Mansour racconta quel che vede, e cioè che sono principalmente le donne a gestire il sistema oppressivo e a collaborare alla conservazione della mentalità medioevale; ma sa che dalle donne deve partire – e partirà – l’azione di sgretolamento dell’integralismo androcratico. Solo le donne, infatti, con la loro paziente risolutezza, con l’ostinazione inarrestabile e con la serena determinazione di cui sono capaci (quando lo vogliono), sono in grado di scardinare il supponente potere dei maschi.
Nel finale – infatti – sarà la madre, vittima rassegnata, a regalare la bicicletta a Wadjda, in un gesto di rivincita per interposta figlia, nella speranza che la nuova generazione pedali più velocemente verso il cambiamento e l’emancipazione.

L’eversione femminile nelle piccole cose vale più della rivoluzione. Lo sconvolgimento dei sistemi parte dalla quotidianità. La denuncia è tanto più efficace quanto meno si lascia ingabbiare dall’enfasi retorica.
L’Idea di futuro degli uomini (“Idea” con l’iniziale maiuscola), quella che ha sempre guidato i destini dell’umanità (da “homo” per indicare la specie intera) è messa in crisi dalla emergente diversa idea di futuro delle donne ed è destinata, in oriente come in occidente, ad essere soppiantata, per fortuna di tutti.
I maschi, soprattutto quelli tradizionalisti, in Arabia e nel mondo, cominciano finalmente a contare poco o niente. E nel film si vede. Sullo sfondo sono forse ancora loro che comandano e imprimono alla società l’andamento che li mantiene al potere, ma si intuisce che la loro tracotanza – beffeggiata – avrà vita breve ed il loro “sistema” assurdo e massimalista cadrà.
 
Il film richiama alla mente le ingenue pellicole neorealiste italiane degli anni ’50, quando i registi sceglievano di narrare piccoli fatti per raccontare sconvolgimenti epocali, ritagliavano piccole storie per capire la Storia, facevano parlare sommessamente la gente che si esprimeva nella quotidianità senza proclamare tesi. Non so se Haifaa Al-Mansour si ispira consapevolmente al nostro neorealismo o se, semplicemente, la scelta di storie minime raccontata con naturalità e schiettezza è propria di una cinematografia nascente.
Ma sicuramente il titolo rievoca “Ladri di biciclette” (film che la regista dichiara di amare); ed è tipicamente Zavattiniana la visione della bicicletta che scorre veloce sopra il muro; e sicuramente neorealista è il clima di speranza che ispira il racconto.

Resta, sospesa, una perplessità: dispiace vedere che per contrapporsi all’oscurantismo islamico si guardi con tanto fervore alla società occidentale (di cui le colorate Converse sono un emblema-feticcio), quella stessa società cioè in cui il disequilibrio fra i sessi viene risolto troppo spesso con l’omofobia e la violenza patologica sulle donne.

sabato 26 gennaio 2013

Take Shelter (2011) di Jeff Nichols



Il film di Nichols racconta la paura. La paura che ha le origini più disparate e può essere spiegata e sviscerata con strumenti sociologici e psicologici, storici e filosofici, etnografici e politici, etici e teologici, semiologici e psicanalitici; ma che può essere raccontata solo dal cinema, unico strumento capace di rappresentare le ombre della caverna, unico luogo in cui si possono riprodurre i sogni e liberare le ossessioni, lenzuolo impalpabile capace di avvolgere l’essenza vaga delle sensazioni indescrivibili.  

La trama è scarna.
Curtis LaForche (Michael Shannon) vive in una tranquilla cittadina dell’Ohio, ha una bella casa, una moglie adorabile (Jessica Chastain), una splendida bambina, un buon lavoro e amici disponibili.
Sotto questa apparente normalità però covano incontrollabili grovigli; e sopra si addensano minacciose nubi gonfie e nere che annunciano l’uragano.
Curtis ha paura. Ha paura degli uragani e delle devastazioni che possono distruggere il suo piccolo sereno mondo e annientare le sicurezze faticosamente conquistate. E la paura incontrollabile alimenta gli incubi notturni; gli incubi generano angosce; le angosce producono ossessioni, fobie, terrore, panico; il sospetto di soffrire paranoia o di schizofrenia (come sua madre) sovraccarica lo stato d’inquietudine e scatena il dissesto definitivo.
Curtis si convince che le sue visioni siano istintuali e premonitrici, e decide di sacrificare tutto – lavoro, risparmi, affetti – per scavare un rifugio antitornado e garantire la sopravvivenza alla sua famiglia: ma per salvare quel che ha, paradossalmente, distrugge tutto.

Il buco sotterraneo nel giardinetto di casa (il dentro) e il cielo nero con le nuvole gonfie di pioggia (il fuori) sono la rappresentazione efficace delle inquietudini indecifrabili (non solo quelle tipicamente americane) che disgregano i rapporti sociali e assillano gli individui; metafora forte delle paure private per quel nemico che ognuno di noi alleva in sé (orribile quanto più profondo) e per le minacce esterne reali o paventate (terribili quanto più invisibili); immagine viva del panico ancestrale diventato memoria collettiva, delle incertezze esistenziali e della apprensione sociale per il futuro, delle angosce che nascono dagli intimi squilibri e dal terrore comune per la catastrofe incombente e per l’apocalisse.
Curtis, nella sua ossessione, percepisce lucidamente questo doppia minaccia, interna ed esterna: e mentre per quella esterna scava un rifugio sotterraneo (per proteggersi è necessario, innanzitutto, separarsi e barricarsi), per quella interna cerca, sia pure con minor convinzione, aiuti terapeutici che, secondo le teorie psicanalitiche, si concretizzano in una forma di viaggio interiore, nell’inconscio, paragonabile allo scavo.

Nichols sa abilmente intrecciare la quotidianità con gli incubi, l’oggettività con le allucinazioni; e questa confusione scombussola lo spettatore che – come il protagonista – fa fatica a distinguere la realtà diurna con l’irrealtà notturna: ad un certo punto non si capisce più se i tuoni ed i fulmini siano effettivi o immaginati, se gli oscuri stormi che attraversano il cielo siano concreti oppure fantasmi che tracciano macchie metamorfiche oscuramente premonitrici, se sia il cane che sta impazzendo o il padrone, se i comportamenti aggressivi di Curtis siano la causa o piuttosto la reazione ai comportamenti aggressivi degli altri.
La notte nel rifugio segna l’acme della follia. Anche lo “spettatore” viene risucchiato dalle ossessioni e si ritrova sotterrato e protetto, indeciso se sbirciare fuori dal bunker o restare dentro, incerto per quel che troverà oltre la botola.
Il coperchio del rifugio si apre su un cielo abbacinante. Attorno ci sono i segni di un comune temporale. Se avessimo trovato fuori dal rifugio le conseguenze anche più modeste di un tornado distruttivo (di quelli che con una certa frequenza imperversano negli States), sarebbe stata una delusione: i limiti di questa esile trama – che racconta una storia in cui non succede niente – sono nello stesso tempo i pregi di questo grande film, perfettamente centrato sulla terrificante inconsistenza della paura.

sabato 19 gennaio 2013

The Master (2012) di Paul Thomas Anderson



Freddie (Joaquin Phoenix) è uno psicopatico reduce alla deriva, alcolizzato sfatto, erotomane ossessivo e disadattato irrecuperabile, stabile nella sua follia e saldo nella sua stravaganza.
Di ritorno dal fronte sul Pacifico della seconda guerra mondiale, incontra un altro suo simile – Dodd (Philip Seymour Hoffman) – che in fatto di solitudine e sradicamento, di inquietudini e pulsioni incontrollate non è da meno; Dodd però, diversamente dallo scombinato Freddie, gestisce i suoi squilibri e non riuscendo ad adattarsi alla normalità, tenta di ritagliarsi uno spazio e di adeguare una porzione di mondo a sé, vestendo i panni di un guru (che con estrema evidenza ricalca la figura di Ron Hubbard di Scientology), deciso a piegare gli altri per compiere una rivoluzione planetaria, edificare una nuova società, fondare una nuova religione, creare una nuova scienza, ideare una nuova umanità.
Fra i due scocca imprevedibile la scintilla e nasce un ambiguo e perverso legame di interdipendenza.
Il guru carismatico vede in Freddie - oltre che il proprio lato oscuro - l’animale da addomesticare, la cavia su cui sperimentare le sue tecniche di condizionamento, il caso disperato da pubblicazione scientifica.
Freddie - a cui è mancata l’autorevolezza di un padre e la tenerezza di una madre - cerca nel dogmatico e dispotico guru l’autorità paterna e nel suo entourage il calore materno e la sconosciuta sicurezza offerta dalla famiglia e dalle mura domestiche.
Il vagabondo si aggrega alla setta, ma il ruolo dell’adepto gli va stretto e il tentativo di recupero delle carenze affettive arriva fuori tempo massimo: dai suoi comportamenti sempre incontenibili appare evidente che la terapia intrapresa non attenua i sintomi e gli squilibri, non frena libido e furori; e che la redenzione appare impossibile, così come incorreggibile risulta il vizio posturale dello sgangherato Eddie che assume portamenti sghembi e andature sbilenche.

I due si attraggono e si respingono, ambiguamente, fra seduzioni fatali e repulsioni crude: facce opposte della stessa medaglia, rappresentazioni estreme del disfacimento e della simultanea volontà di palingenesi del sogno americano. Con Freddie ancorato alla realtà (la donna di sabbia?) e alla dura concretezza del presente ed il fanatico Edd manipolatore della verità, professionista della coercizione, subdolo fabbricatore di illusioni proiettato nel futuro e nell’utopia. Personificazioni, l’uno e l’altro alternativamente, di impulsi contrastanti: fuga dal presente e paura del futuro; anaffettività e voglia di tenerezza; sete di libertà e bisogno di un leader; attesa di regole e necessità di trasgressione; ricerca di protezione e urgenza di autonomia; lucidità autocosciente e obnubilamento alcolico; manipolazione e plagio e bisogno di verità; cupio dissolvi e brama di rigenerazione.

La recitazione dei due protagonisti è superba (ed è evidente che il film ha giocato le sue carte sulla straordinaria professionalità dei tre protagonisti); così come straordinaria è l’interpretazione di Amy Adams (la saldissima donna di Edd che riesce a far percepire la predominanza del suo personaggio, solo apparentemente marginale, con una recitazione scarna “di sottrazione”).
Le scelte registiche sono impeccabili, “autoriali”: dalle ambientazioni (stive claustrofobiche e oceani aperti, salotti vintage e deserti piatti, a raffigurare alternativamente oppressioni e voglia di libertà, ossessioni e redenzioni) alla colonna sonora; dalla fotografia (che evoca i colori un po’ eccessivi e falsi delle pellicole di mezzo secolo fa, perfino in alcuni graffi che sospetto intenzionali ...) al montaggio (col suo andamento ora convulso, ora indolente e prolisso, a creare smarrimento).
Alcune scene hanno una potenza che le rende indimenticabili (come quella iniziale sulla spiaggia, le claustrofobiche sedute, il piano sequenza del centro commerciale, l’incontro nel megalomane mussoliniano studio-hangar londinese o la sublime imprevedibile “fuga” sulla motocicletta nel
deserto dell’indocile Eddie, Frankenstein ribelle che manda all’aria l’autorevolezza di Edd e sancisce il fallimento della sua missione).


Lo schema narrativo è sgangherato, come il protagonista, e sarebbe facile pensare che l’incoerenza della narrazione sia il programmato ricalco delle incoerenze di Eddie.

E le inspiegabili sfilacciature della trama, a lungo andare (visto che il film dura due ore abbondanti), stancano: subentra la noia per i rallentamenti inspiegabili, l’irritazione per le inutili ripetizioni, il disorientamento per le elissi e i salti illogici.
Che siano anche questi i sofisticati intenzionali espedienti di Anderson per confonderci e farci sentire empaticamente smarriti? 

Il treno (di George Simenon)


1940. I Tedeschi invadono il Belgio e si preparano a dilagare in Francia. Dalle Ardenne e da tutte le zone di confine destinate a diventare zona di guerra, parte un imponente flusso di profughi.
L’elettrotecnico Marcel con la sua famiglia riesce a trovar posto su un treno diretto verso ovest: la moglie incinta e la figlia su un vagone passeggeri, lui stipato con altri sconosciuti su un carro-merci che lungo il tragitto sarà sganciato e dirottato su altri percorsi.
La forzata nuova condizione di “deportato” colloca Marcel in una situazione incredibilmente ambigua: da una parte questo uomo qualunque si ritrova ingabbiato e spersonalizzato come un recluso, un relitto alla deriva, uno zombie passivo  incapace di reagire, sballottato e rassegnato al destino; dall’altra, la insolita situazione, proprio in virtù dello sganciamento dalla quotidianità (e dalle regole che la quotidianità impone),  gli fornisce l’occasione per vivere una esperienza di evasione dalla scialba quotidianità (che è la sua vera, immateriale, tragica prigione).
Il vagone che lo ospita diventa un universo separato nel quale, dopo il caos iniziale, sbocciano relazioni, si determinano ruoli.

(“Si era prodotta una frattura. Ciò non significa che il passato non esistesse più, né tanto meno che rinnegassi la mia famiglia e avessi smesso di amarla. Semplicemente, per un tempo indeterminato, vivevo in un'altra dimensione, i cui valori non avevano nulla in comune con i valori della mia vecchia vita.”- pag. 87)

(“Nè passato, nè avvenire. Solo un fragile presente, che divoravamo e assaporavamo al tempo stesso. Ci rimpinzavamo di piccole gioie, di immagini, di schegge di luce che, certamente, avremmo conservato per tutta la vita.” - pag. 123)


Assistiamo al timido manifestarsi di un’attrazione fra Marcel e Anna, una giovane profuga ceca.
Due solitudini che si annusano e si cercano: Anna, ebrea di Praga appena rilasciata dal carcere; Marcel, che è stato rinchiuso a lungo in un sanatorio ed ha sofferto ancora più a lungo la reclusione per un’insoddisfatta routine matrimoniale.

(“Vissi lassù 4 anni, un po' come sul treno; voglio dire che il passato e l'avvenire non contavano, né contava quello che succedeva giù nella valle, né tanto meno nelle città lontane.” - pag. 39)

Le chiavi di lettura del libro sono almeno due: quella sentimentale che vede il dispiegarsi della tenerezza e quella cinica che vede il trionfo dell’ineluttabilità, lo sgretolarsi della capacità dell’uomo a modificare il proprio modo d’essere, se non il proprio destino. 
Simenon gioca abilmente sui due registri, e ciascuno è libero di scegliere se abbandonarsi all’emotività dolce e leggera (assumendo la toccante storia come un sofisticato elisir d’amore) o abbattersi al pessimismo circa la libertà di scelta degli umani (non allontanando da sé l’amaro calice del nichilismo). Ma l’autore – secondo me – propende decisamente (anche se forse non del tutto consapevolmente, considerata la sua prolificità e la sua velocità di scrittura) verso visione amara dei fatti.
Chi conosce il romanziere francese sa che la sua crudeltà non ha limiti. In questa opera, eccezionalmente, lascia la penna nelle mani di Marcel, gli fa raccontare in prima persona la sua avventura e gli fa persino esprimere le circostanze e le ragioni di questa lunga confessione (trascritta segretamente su un diario per dimostrare a se stesso di essere capace di vivere e per offrire ai figli, in futuro, una diversa e meno logora immagine di sé).
Ma in ogni pagina e con mille dettagli Simenon lascia trapelare che l’avventura insolita (che dovrebbe ridisegnare il profilo di un uomo mediocre) si sviluppa non per volontà dello scialbo Marcel, ma a causa della precisa determinazione della donna (che prende l’iniziativa, decide per lui, crea le condizioni del rapporto, gestisce questioni logistiche e sviluppi affettivi).
Marcel, sul treno e nel campo profughi, come in tutta la sua vita passata e futura, si lascia trasportare dagli eventi, non ha il controllo della situazione, lascia che le cose accadano (“forse non eravamo ancora arrivati all’indifferenza, ma ciascuno di noi aveva rinunciato a pensare in prima persona”), vive la precarietà: non sa dove lo porta il treno (e in certi momenti non gliene importa), non sa come si evolverà il suo rapporto con Anna, accetta l’avventura, ne subisce la conclusione (“finisce tutto in una bolla di sapone”). La sua voglia di riscatto si dispiega solo grazie all’accidentalità; l’intimità di cui gode non è progettata ma imprevista, non cercata ma trovata.  

L’unica decisione di Marcel, presa dopo la fine penosa della sua storia, sarà quella che ne sancirà la conclusione tragica.

I figli di Marcel, come noi, conserveranno di lui il ricordo di una persona abulica, un uomo triste senza passato e senza futuro, un insoddisfatto che non ha saputo scegliere una vita alternativa, non ha saputo afferrare una transitoria e probabile occasione di felicità, non ha accettato di destabilizzare una vita insoddisfacente.

(“Soffrivo di non poter raggiungere l’impossibile.”)

La storia di Marcel è la storia di un vinto, in sintesi.
Uno sconfitto verso cui provare, come verso sé stessi, compassione.