giovedì 29 novembre 2012

L'uomo che guardava passare i treni, di Georges Simenon (1938)



Potrebbe sembrare una mia ossessione, ma anche in questo libro, come già in "La doppia morte di Quincas l'Acquaiolo" di Amado (vedi mia recensione su Anobii), non posso fare a meno di scorgere riferimenti pirandelliani. 
I primi e più importanti nessi li trovo (come per Amado) con la straordinaria novella “Il treno ha fischiato …”, e sono: l’esplicito (involontario?) riferimento contenuto nel titolo; la lunga noiosissima mediocre routinaria carriera da sedentari dei due protagonisti, lo stimato procuratore Kees Popinga in Simenon e lo zelante computista Belluca in Pirandello; la loro insoddisfazione ed il fallimento esistenziale; le fantasie mai realizzate di trasgressione e quelle sognate d’evasione legate ai treni che viaggiano nella notte; la normalità come costrizione; l’improvvisa consapevolezza di una sconfitta e la lucida coscienza di fallimento; la scelta della clandestinità; la decisione di dare un calcio al passato e di uscire con un escamotage da una condizione di stagnazione (con Popinga che passa attraverso scelte trasgressive: fuga, furti, imbrogli, donne, delitti; e Belluca che trova la libertà impossibile nella follia), la sconcertante identica destinazione finale. 
Altri evidentissime affinità contenute nello sviluppo della trama rimandano ad un'altra opera pirandelliana, “Il fu Mattia Pascal”, e sono: la morte presunta come via d’uscita da una situazione intricata (del protagonista in Pirandello e di un amico del protagonista in Simenon), la puntigliosità dei piani di “evasione”, la voglia di rivincita, la determinazione a non tornare indietro, i meccanismi che si inceppano, la solitudine, la voglia di sfida, il denaro, la vita in incognito, le pensioni di infimo livello, l’anonimato garantito dalla grande città, le tentazioni di “disvelamento”, …

La novella di Pirandello è del 1914 (pubblicata sul Corriere della sera e poi in un volume - La trappola - nel 1915). Pirandello viene insignito del premio Nobel nel 1934, Il romanzo di Simenon è del 1938. 
Non so cosa darei per sapere quanto consapevole fosse Simenon di questo suo debito nei confronti dello scrittore di Girgenti.

Il treno? 
Esiste al mondo un Popinga qualsiasi che non nutra un segretissimo rimpianto per un treno perso?

lunedì 19 novembre 2012

Primarie





Renzi è irritante per la sua sicumera e per la sua saccenteria. Ha il vantaggio di credere di saper usare meglio degli altri i media: davanti alle telecamere ha l'aria di chi sta eseguendo bene il compito che gli hanno insegnato i guru della comunicazione (fra i quali spicca il cognato della cuoca Parodi). Certamente consce le tecniche della comunicazione meglio dei problemi politici, economici, etici e sociali del paese (e i modi per affrontarli). Questo lo favorisce in un paesello fortemente condizionato dalle relazioni superficiali nelle quali assume primaria importanza la seduttività comunicativa. Conquista voti sorridendo a tutto spiano con la sua faccia canzonatoria ed il sorriso bischero di chi ha l'aria di conoscere la risposta a tutte le domande prima che vengano poste. È un discolo rubamarmellata che per arrivare a guidare la sinistra non sa far altro che polemizzare ossessivamente e fastidiosamente con la sinistra, prendendone le distanze. Ed io sono felicissimo di prendere le distanze da lui.



Vendola mi annoia con la sua piagnosa retorica d'accatto, con la sua visione sentimentale dei problemi, con la sua verbosità barocca e l'ossessione per la perifrasi, con la sua seriosità contrita, con la sua ex-intransigenza (che lo ha portato a far cadere Prodi e a favorire l'ascesa di Berlusconi). Non gli perdono la tesi su Pasolini (scontata!) ed il fatto che si dichiari gay (ma di quelli composti, senza divisa esibizionista) e devoto della Madonna di Sovereto. Non gli perdono venti anni di ondeggiamenti e vagabondaggi nel polverone della sinistra dopo il disfacimento del monolitismo comunista. Non gli perdono che la "e" di SeL, da congiunzione si sia trasformata - dopo una ennesima scissione - in e (minuscola) come ecologia. Non gli perdono il fatto che abbia ideato "le fabbriche di Nichi", a metà strada fra sezioni di partito, comitati elettorali e cellule virtuali di fans. Non gli perdono che si sia montato la testa dopo esser diventato presidente della Puglia quasi per caso, per demerito degli altri concorrenti più che per meriti suoi.

Tabacci mi fa simpatia e pena nello stesso tempo. Ha l'aria di un ipertiroideo che soffre di ulcera gastrica, perennemente in crisi per l'impossibilità di trovare una collocazione al centro senza ritrovarsi in compagnia di ladri, faccendieri, fascisti, politicanti di professione, puttanieri. Gli perdono di essere stato democristiano (onesto), non gli perdono di essere stato nell'UDC (con Cesa e Casini quando tenevano il piviale a Berlusconi), non gli perdono di essere uscito dall'UDC per mettersi nel gruppo misto con (udite, udite!) Francesco Ciccio Rutelli (il più idiota del panorama politico italiano). Non gli perdono di essersi lasciato mettere lì per intercettare i voti del centro.


Puppato non mi piace perché piace in quanto donna con l'aria di casalinga innocua. Attira la mia accondiscendenza perché ha accettato di essere messa lì a dimostrare che a sinistra non si è maschilisti come a destra, dove le donne hanno cominciato a trovare spazio solo per meriti di immagine. Ma non le perdono il fatto di essersi diplomata maestra ma di non aver mai fatto la maestra, di aver accumulato soldi con le assicurazioni militando - nello stesso tempo - nel WWF, di aver percorso la carriera nel partito della sinistra per le sue posizioni ambientaliste (carta vincente in tutte le coalizioni), di aver razziato carrettate di preferenze in tutte le elezioni a cui ha partecipato, di aver sposato la causa dell'omeopatia "scientifica" e di essersi schierata contro gli OGM (e ho sentore che le due cose siano in contraddizione, chissà perché), di aver ricevuto - come sindachessa - gli entusiatici elogi di Beppe Grillo (il più furbo dei bastardi nel panorama mediatico italiano). 



Bersani, anzi "il Bersani" - mi piace perché è calvo, perché si tira su le maniche della camicia, perché ha mantenuto l'inflessione dialettale nonostante la laurea in filosofia, perché - grazie alla laurea in filosofia - si occupa di economia, commercio, industria, trasporti, fisco). Simpatizzo per lui perché chiama "lenzuolate" le riforme, perché ha eliminato i costi fissi e le tasse e le scadenze delle ricariche telefoniche. Gli sono grato perché ha garantito la sopravvivenza del PD diventandone segretario al posto di Franceschini e di Ignazio Marino. Lo ammiro perché resiste ai vertici del partito nonostante l'appoggio di D'Alema. Simpatizzo per lui perché, al contrario di tutti i politici che aprono questioni di principio su tutti i problemi concreti, riconduce ogni disquisizione di principio sul terreno della concretezza. Voto per lui, se voto, aspettando Godot.


venerdì 16 novembre 2012

Il sole dentro, di Paolo Bianchini (2012)


Due storie che si intersecano.
La prima – vera – è quella di due ragazzi della Guinea, Yaguine e Fodé, che scrivono una lettera "Alle loro Eccellenze i membri e responsabili dell'Europa" per raccontare le misere condizioni in cui sono costretti e per chiedere aiuto; e poi, decisi a consegnare personalmente l’appello, si imbarcano clandestinamente su un aereo per Bruxelles nascondendosi nel vano carrelli e morendovi assiderati.
La seconda storia – di finzione – è quella di Thabo, un altro ragazzo guineano che, “importato” in Italia come promessa del calcio (anzi, del mercato del calcio), non si rivela il campione che sembrava e viene letteralmente “scaricato” dal suo mister in un’area di servizio presso Bari; e per orgoglio e nostalgia decide di tornarsene al suo villaggio, accompagnato da Rocco, un amico barese orfano di madre, col padre carcerato, in fuga da uno zio che lo sfrutta e lo maltratta.
I due compiono un inverosimile viaggio verso la Guinea, prima imbarcandosi da clandestini su una nave e poi attraversando a piedi il grande deserto lungo il “sentiero delle scarpe”, percorrendo a ritroso il viaggio dei disperati che fuggono dalla miseria e dalla fame verso l’Europa inospitale.

Lo spazio dedicato alle due storie è asimmetrico: quella vera e tragica appare secondaria, breve e sproporzionata, posticcia, discontinua e saltuaria, male incastrata e senza nessi con l’altra (se si eccettua il forzato aggancio “a sorpresa” costituito dalla Finocchiaro che nella prima storia è l’operaia nello scalo di Bruxelles che scopre i cadaveri dei due ragazzi e nella seconda diventa la volonterosa operatrice sociale in Africa).  E troppo lontano appare la cupa e cruda atrocità della storia vera rispetto all’ottimismo e alla leggerezza di quella inventata. 
Le due vicende si intrecciano con troppa superficialità e alternano senza soluzione di continuità (sia narrativa che stilistica) brevi passaggi estremamente verosimili con lunghi momenti favolistici e inverosimili (come l’attraversata del deserto – si parla del Sahara! – compiuta da due ragazzini soli che scalciano allegramente un pallone fra le dune, dribblando tombe e relitti; come le inspiegabili coincidenze che fanno sì che tutti i personaggi incontrati dai due ragazzi lungo l’improbabile viaggio di qualche migliaio di chilometri siano – dico tutti – simpaticamente italiani).
Non basta buttarla sulla metafora per giustificare il minestrone: le figure retoriche, in letteratura come nel cinema, hanno senso quando assumono risalto distaccandosi, ben distinte, dallo sviluppo narrativo e collocandosi nei momenti chiave della trama senza condizionarla.
Il sole dentro è film girato e prodotto da un regista che conosce il mestiere ma non l’arte; che dimostra di non aver imparato granché dai registi con cui ha collaborato (Zampa, Monicelli, Comencini, De Sica, Bolognini, Leone, …); e che non brilla certo di luce propria. Niente a che fare con i cineasti dei paesi emergenti che sembra abbiano fatto propria con maggior efficacia la lezione dei neorealisti (pensiamo, per esempio, al cinema mediorientale, iracheno o iraniano, a quello palestinese o israeliano, e a quello turco, a quello sudamericano, a quello dell’estremo oriente,…).
Il filmetto va bene come spot per l’Unicef, o come pretesto per un bel cineforum nella scuola dell’obbligo. Certo: l’argomento e i problemi che tocca costringono gli spettatori ad essere bendisposti (non si spara sulla Croce Rossa); ma il tema importante non basta a rendere importante il film. E le incoerenze e le furberie, a lungo andare, diventano stucchevoli se non sono sorrette da una convinta ispirazione e da una convincente appassionata energia creativa.
Imperdonabile l’ingenuo montaggio alternato (da scuoletta di cinema) dei due amici che si incontrano; ingiustificabile l’abbigliamento touareg di Salvi o l’inserimento forzato di Giobbe Covatta; insostenibile il sonno dei due ragazzi nel deserto, mano bianca nella mano nera, che ricorda l’edulcorato spot dei biscotti Ringo. Per non parlare del “decisivo” (e razzista) inserimento di Rocco, il campione bianco con la faccia impiastricciata di nerofumo, nella partita di calcio che, giocata al ritmo dei tamburi, chiude il film.

Non è giusto infierire, ma c’è da chiedersi come mai i ragazzi di N’Dula fuggono da quello che sembra il paradiso terrestre, dove i rapporti sono idilliaci, dove non manca mai chi prepara pasta e fagioli e dove trovano senso le vite di Angela Finocchiaro e di Gaetano Fresa, e perfino quelle di uno scombinato come Francesco Salvi e di un fuori di testa come Diego Bianchi (che, pur interpretando il ruolo di Console Onorario non rinuncia ai tratti caricaturali di Zoro, il suo personaggio da cabaret).
Una battuta si salva: quella di Thabo che, rispondendo a Rocco che dice di avere una sorellastra di cui non ricorda il nome, sussurra che lui di fratelli ne ha tanti e di tutti ricorda il nome; ma a ben vedere, anche questa può apparire come una trovata moralistica, accattivante e furba del Bianchini sceneggiatore.

Leggo l’elenco dei produttori: Alveare Cinema (dello stesso Bianchini, autore del soggetto e del trattamento oltre che regista), Rai Cinema e Apulia Film Commission, con il patrocinio dell’Unicef, della Figc (la potente federazione calcistica, non i giovani comunisti) e della autorevole Comunità di Sant’Egidio. È proprio il caso di dire, citando Orazio (Ars poetica, verso 139): “Parturient montesnascetur ridiculus mus” che significa "Le montagne partoriranno, nascerà un ridicolo topo".


Silent Souls, di Aleksei Fedorchenko (2010)




Russia centrale, zona del lago Nero, a circa 250 da Mosca, in direzione nord-est.
A Miron, proprietario di una piccola cartiera, muore la giovane moglie Tanya. Essendo discendente di un’antica tribù ugro-finnica, decide di riportare la salma al paese d’origine per cremarla, come vuole la tradizione, nelle acque del grande lago.
Con l’aiuto di un suo amico-dipendente, Aist, prepara il cadavere secondo i riti tramandati, lo veste coi costumi avvolge e lo carica sul furgone della cartiera e parte.
Nel lungo viaggio, secondo le usanze del suo popolo, racconta ad Aist che lo accompagna quelli che considera gli episodi salienti della sua vita con la donna.
Il viaggio interminabile verso il rogo rituale diventa un malinconico percorso a ritroso nei ricordi: il racconto si snoda – senza reticenze – in una successione di reminiscenze intense sullo sfondo di paesaggi immensi e desolati. I fatti rievocati sono quelli più significativi della vita della coppia, e cioè quelli della quotidianità: ora malinconici e teneri, ora strani e impietosi; ora dolci, ora duri, come la vita che è per tutti un intreccio indecifrabile di incomprensioni e solidarietà, di tenerezze e di freddezze, di monotonie e di complicità, di premure e di indifferenze.
La confessione di Miron è sconcertantemente autentica, qualche volta impietosa, ma non si può – in quelle circostanze – mentire a se stessi e alla moglie che se ne sta immobile sul pianale del furgone. L’intensa sofferenza che lo attanaglia esige la più totale sincerità.
Perfino Aist , coinvolto dall’autenticità dei racconti di Miron, si abbandona ai ricordi e lascia trapelare i pensieri affettuosi coltivati per Tanya.
Per contenere il dolore ed elaborare il lutto è necessario “commemorare”, lasciar liberi i ricordi e la commozione che li accompagna, rievocare i piccoli gesti, richiamare i significati profondi dei sussurri e dei silenzi. Il più autentico modo di omaggiare una donna amata e perduta è quello di ricordare con soave dolcezza le sue incoerenze, di lasciar emergere con infinita compassione le asperità dei contrasti,  di ripensare e comprenderne le contraddizioni.
La morte conclude la vita, non il rapporto che – dopo – vive più che mai nella verità del vero, e morirebbe invece nella fissità falsa di una foto, nella costruzione ipocrita di un’icona o nel “liberatorio” processo di beatificazione.
Dopo il rogo e dopo che le ceneri di Tanya si sono sciolte nel grande fiume che guarisce ogni dolore, i due piccoli uccelletti in gabbia che accompagnano il trasporto funebre (per l’esattezza due zigoli, gli ovsyanki del titolo originale) voleranno liberi fra acqua e cielo,   evidente metafora delle anime silenziose che - compresse dalle reticenze alle quali si è obbligati in vita – ritrovano la libertà slegando i ricordi senza reticenze e senza inibizioni, nella spontanea naturalezza che solo il dolore consente.





Salvare il mondo



    Jorge Louis Borges, I giusti, in La cifra, 1981

giovedì 15 novembre 2012

A Serious Man, di Ethan e Joel Coen (2009)


Un film agghiacciante e divertente nello stesso tempo, esilarante e crudele, comico e caustico. In sala si ride a più riprese, ma il retrogusto che si insinua  negli interstizi dell’anima – una scena dopo l’altra – è di una amarezza sconfinata.
L’uomo serious del titolo è Larry, un quarantenne onesto, retto, mite, indulgente, conciliante, remissivo: un uomo buono, insomma, o un buon uomo. É sposato con una donna ineccepibilmente amorfa, ha due figli distaccati e menefreghisti come di regola, svolge con sufficiente impegno il suo lavoro da insegnante, possiede una bella casa molto americana col suo tappeto erboso, partecipa con distratta indifferenza ai cerimoniali della comunità ebraica a cui appartiene,…
Nel giro di pochi giorni i cardini su cui poggia la sua ordinaria esistenza vengono messi a dura prova: su di lui si addensa la sfortuna, si concentrano le avversità; attorno a lui – come attorno al Giobbe della sua tradizione biblica – tutto si scompone e si sfascia.
Il povero Larry attraversa catatonico il suo labirinto di sventure, disorientato dalla cattiveria di chi gli è vicino, dalla mancanza di riconoscenza, dal cinismo, dall’indifferenza impudente o da una finta attenzione ipocrita, dal perbenismo distaccato o infido, dall’egoismo. In una condizione di estraneità dolorosa (per dirla con Moravia) non riesce a ribellarsi(non lo ha mai fatto in tutta la vita); non riesce a bestemmiare (incredulo della atrocità di quel che gli accade); non riesce a pregare  (scombussolato dalla incomprensibile imperturbabilità del cielo). Il suo sorriso, sequenza dopo sequenza, si va congelando più per la sorprendente assurdità delle sue sventure che per il dolore.
Un uragano, non metaforico, potrà chiudere l’atroce mulinello di disgrazie che lo sta inghiottendo. O forse lo risveglierà da un incubo.

Qualunquemente (2011) di Giulio Manfredonia



 Il film è scalcagnato, incerto fra il surrealismo del protagonista ed il campo d’azione che deve invece apparire “ordinario” e vicino alla realtà. E, come quasi tutti i film costruiti attorno a delle macchiette, mostra il fiato corto e cade nella ripetitività che a lungo andare esaspera.
Certamente contiene delle genialate fulminanti, ma il brodo è lungo e poco amalgamato. Ricorda - in questo - alcuni film di Totò e alcuni di Sordi. Alcune sequenze potranno costituirsi come documenti significativi per fotografare l’Italia del Duemila.

E poi, e poi, … non è un film comico. Chi si tiene minimamente informato sulle vicende politiche del nostro paese, non ci trova molto da ridere. Albanese carica i suoi personaggi fino all’esasperazione, ma viene immancabilmente dribblato dalla cronaca. È difficile parodiare una parodia. La tragicommedia sta nella realtà, non nella pallida finzione che le rappresenta. Il sorriso che affiora in presenza di un qualunquismo così dichiaratamente smaccato e strafottente si raggela sul viso e diventa una maschera attonita. Solo Pirandello forse ha saputo infilzare in questo modo il coltello della satira amara nelle carni di una società che non finisce mai di stupire per la sua inaudita capacità di sopportare tanta violenza.
La bestia immonda non è Cetto Laqualunque, ma chi lo supporta e lo sopporta.
Ad essere surreali non sono i suoi programmi elettorali ma il pubblico autolesionista che li applaude con tragico entusiasmo.
Il cinismo inquietante del personaggio - consapevole e impudente - è direttamente proporzionale alla beota e tragica allegria dei suoi sostenitori - irresponsabili e ossequienti - e alla tragica impotenza di tutti gli altri che, a lungo andare, si dovranno rassegnare al quia, annichiliti dall’assuefazione, incapaci di indignarsi.