mercoledì 26 settembre 2012

L'intervallo, di Leonardo Di Costanzo (2012)


Salvatore - un impacciato diciassettenne napoletano venditore ambulante di granite - viene costretto da un guappo di periferia, per un giorno, a far da carceriere a Veronica, una quindicenne che, trasgredendo le regole non scritte della malavita, si è messa con un ragazzo appartenente ad una banda rivale.
Per qualche ora Veronica e Salvatore - sequestrati costretti alla forzata convivenza nella vasta area degradata di un manicomio abbandonato - reggono il ruolo dei ruvidi antagonisti fingendosi quegli adulti che non sono: lui scimiotta con goffaggine i modi bruschi del camorrista; lei esibisce la sicurezza della femmina navigata.
Ma il lolitismo esibito da Veronica non è che la corazza dentro cui è costretta a blindarsi e difendersi una bambina indifesa sognatrice. E la poco convincente sicumera di Salvatore rivela presto l’imbarazzo profondo del buon ragazzo che - disorientato dalla incomprensibile prepotenza che lo circonda - si sente sfasato e fuori posto (e per questo bofonchia  continuamente “Tutto a posto”, ripetendo il mantra a se stesso, alla ragazzina, al padre, allo scagnozzo e al boss).
La loro iniziale rancorosa ostilità si tramuta in curiosità e poi in solidale condivisione del disagio, in timidi tentativi di confidenza. Forzati e adulti per forza si abbandonano gradualmente ai loro bisogni di infanzia negata e sognante e al desiderio di essere altrove.
L’avvicinamento è lento, fatto di gesti parsimoniosi, di silenzi eloquenti, di frasi smozzicate e dialoghi rarefatti, di fissità e sguardi furtivi, di annusate circospette, di incessanti giochi al rimpiattino che li porta a nascondersi per cercarsi, a perdersi e trovarsi, ad allontanarsi ed avvicinarsi in continue fughe e ritorni, intimità rifiutate e cercate. E la diffidenza diventa coesione, condivisione, compassione, complicità, simpatia.
Che li unisce non è la sindrome di Stoccolma che imbriglia patologicamente la vittima al carnefice e neppure lo sbocciare di una ingenua attrazione adolescenziale, ma la consapevolezza condivisa di trovarsi in una situazione assurda ed inaccettabile (che richiama la condizione esistenziale, altrettanto inaccettabile ed assurda), la non rassegnata coscienza di vittime incolpevoli, la kafkiana attesa di una sentenza comunque ingiusta, l’istinto di solidarietà che lega gli oppressi.
Il luogo chiuso, immenso ed immensamente desolato, non comprime ma alimenta la loro voglia di evasione ed il loro sogno di libertà: l’area degradata diventa foresta in cui perdersi ascoltando il canto degli uccelli (che da lì non fuggono), le fogne sono un mare da attraversare (su una barca scassata) per raggiungere un’isola incantata, i sotterranei pieni di topi si trasformano in caverne da esplorare in cerca del tesoro, i tetti sono cime da scalare per contemplare gli orizzonti. Napoli è lì, coi suoi palazzoni orrendi a far da quinta immobile, col suo traffico caotico lontano e silenzioso, con gli alti edifici del centro direzionale irreali nelle loro nitide geometrie.
Il finale pare rinunciatario: alla fine, tutto torna “a posto”. Il breve canto dolce che si alza da questa storia, di sfida o d’amore, è un canto interrotto. Ma Salvatore è certo che la cagna che accudisce la sua cucciolata nei sotterranei tanfosi del manicomio, così come è entrata, troverà la strada per uscire.  
Nel cielo rombano gli aerei che puntano dritti verso paesi lontani.

martedì 4 settembre 2012

Monsieur Lazhar (2011) di Philippe Falardeau



Montreal, Canada. Bachir Lazhar - un non più giovane immigrato algerino che ha la faccia da algerino e l’aria sperduta dell’immigrato - legge sul giornale di una maestra che si è impiccata in aula durante la ricreazione e si presenta alla direttrice della scuola per proporsi come supplente. Non ha mai insegnato e non ha titoli per farlo, ma riesce ad ottenere l’incarico esibendo un falso curricolo.
In classe, dopo le incertezze del primo impatto, riesce a trovare una certa disinvoltura, aiutato proprio dalla inesperienza che lo rende simpaticamente anticonformista, originale, alternativo; e grazie alla sua diversità, conquista gradatamente la benevolenza dei suoi alunni e instaura con loro un rapporto genuino, non viziato dalla rigidità dei formalismi, dalla ipocrisia delle convenzioni sociali, dalla aridità delle regole istituzionali e dalla insulsaggine delle consuetudini.
Con la sensibilità che possiede, acuita anche da tragiche esperienze familiari (la moglie, scrittrice progressista,  è morta insieme ai figli nel rogo della casa appiccato da fanatici integralisti), è in grado di affrontare con la necessaria e delicata attenzione anche il trauma vissuto dai bambini per il suicidio della loro insegnante. E lo fa malgrado i divieti delle autorità scolastiche (che scaricano sugli psicologi il compito di affrontare l’argomento) e l’indifferenza dei colleghi; nonostante l’opposizione dei genitori (che non accettano di essere sostituiti o scavalcati da un immigrato nei loro mal esercitati ruoli educativi); a dispetto delle naturali resistenze messe in atto da alcuni alunni (che non hanno gli strumenti necessari per affrontare il trauma, vincere le paure, liberarsi dei sensi di colpa, superare le crisi di panico, sottrarsi al senso di abbandono).  

Lazhar si finge insegnante e lo diventa nel senso più completo del termine; vive nella menzogna e riesce a smantellare un castello consolidato di ipocrisie.
In uno straordinario intercambio di ruoli con i suoi alunni (paradigmatico è il suo impegno a svolgere i compiti che assegna e ad accettare il giudizio della classe), insegna e nello stesso tempo impara - semplicemente - che per avere risposte è necessario porsi domande; che i sentimenti devono essere vissuti e non affrontati come fossero patologie; che i fatti accadono anche se si tengono chiusi gli occhi; che il dolore è un esperienza di vita, non è un incidente di percorso; che la morte non si cancella dipingendo le pareti e organizzando festicciole.  
Il paziente e disincantato maestro che ha subìto una perdita crudele, aiuta i suoi alunni ad elaborare un lutto atroce.  Ed avendo patito l’angoscia della solitudine aiuta i suoi bambini a superare lo strazio delle separazioni: quella da Martine Lachance, la maestra suicida, e quella che li a poco li allontanerà da lui, quando alla fine sarà smascherato come falso (?) maestro e licenziato.