giovedì 9 febbraio 2012

L'uomo che non c'era (2001) di Joel Coen


Siamo nel 1949.
Ed Crane fa il barbiere a Santa Rosa in California e conduce un esistenza amorfa, triste, rassegnata; apatico nella sua fissità, grigio nella sua anaffettività (non ama, non odia, non gioisce, non soffre), rigido e tragico nella sua totale inespressività.  
Alla ricerca di “un qualche tipo di fuga, un qualche tipo di pace”, ricatta l’amico con cui la moglie lo tradisce, gli estorce una grossa somma di danaro e poi lo ammazza, ma qualcosa va storto e gli eventi lo travolgono inesorabilmente, proprio come accade in altri film dei fratelli Coen costruiti attorno a storie di ricatto (Fargo, Il grande Lebowski, Burn after reading).
La totale indifferenza davanti al precipitare degli eventi non nasconde il suo sentire profondo che - sorprendentemente e paradossalmente - è impregnato da un’inquietudine immensa e devastante anche se inespressa, da un’insoddisfazione intima insopportabile, da una rabbia compressa che scaturisce da una disperazione insanabile.
Per queste ragioni, anche se la vicenda ruota attorno ad un canonico omicidio, il film non può essere ingabbiato nel genere noir, ma dilata i suoi significati fino a diventare uno spiazzante trattato filosofico sul nichilimo che regge il paragone con il pensiero e le opere di Turgenev e Dostoevskij, Kafka e Camus.

La sceneggiatura è perfetta, asciutta e sostanziale; la regia è pulitissima, senza enfasi deconcentranti, rigorosamente tesa a rappresentare l’emozione nella sua scarna essenzialità.
Splendido e nitidissimo il bianco e nero che ricostruisce con suggestione le temperature sbiadite dell’epoca e ne restituisce in maniera impeccabile le atmosfere.  
Sublime l’interpretazione di Billy Bob Thornton, che vive tagliando capelli che ricrescono in continuazione, si lascia scivolare addosso gli eventi  “come se recitasse”  e procede come un automa  mantenendo davanti alla sedia elettrica la stessa fissità di sguardo che ha davanti alla poltrona da barbiere .

Bug (2006) di William Friedkin


Il telefono squilla nella notte con ossessiva insistenza. Agnes risponde incerta, con riluttanza. Dall’altra parte del filo nessuno parla. Agnes di infuria e inveisce contro quello che lei pensa sia l’ex-marito uscito di galera.
La donna - che una decina di anni prima ha perso il figlio, svanito nel nulla mentre era con lei a fare la spesa in un supermercato - vive sola nella squallida stanza di un desolato motel che sorge lungo una di quelle strade che tagliano dritte la deserta landa dell’Oklahoma. Fa la cameriera in un locale gay, tampona il suo malessere concedendosi sporadiche serate a base di whisky e cocaina con la sua compagna di lavoro, Ronnie, che tenta ogni tanto, inutilmente, di proporle maschi di passaggio per movimentare la monotonia di un’esistenza in declino.
Una sera l’amica le presenta Peter, un ragazzo riservato, taciturno e introverso, Agnes abbassa un po’ le sue difese, attratta dalla rassicurante timidezza di Peter. La stessa sera, l’inaspettata visita del violento marito, sempre brutale e minaccioso, spinge Agnes a desiderare e cercare con molta esitazione la discreta e incerta protezione del nuovo amico nel quale pensa di poter trovare un puntello alla solitudine.
Peter parla di sé, della guerra del Golfo alla quale ha partecipato, del ricovero in un ospedale psichiatrico, delle cure a cui è stato sottoposto: sostiene di essere la cavia di esperimenti perversi, è ossessionato dalla paura di essere catturato e ricondotto nei laboratori da cui è fuggito, ha un paranoico terrore degli insetti che - a suo dire - gli invadono il corpo, gli bevono il sangue, gli colonizzano l’organismo, gli soggiogano il cervello.
La fusione delle reciproche paure avvicina i due infelici e li unisce, ma le due disperate solitudini unite in una simbiosi lacerante, mettono in movimento un processo di plagio reciproco e determinano paranoie parallele ed incubi progressivi che attireranno Peter e Agnes in una spirale inarrestabile di dissoluzione e li condurrà verso la  terrificante autodistruzione.

Il regista mescola gli stilemi propri del genere psicologico e psichiatrico con quelli del cinema melodrammatico (l’amore triste fra i due emarginati), claustrofobico, horror e splatter (automutilazioni), politico (la sindrome del complotto, lo strapotere dei militari, il disagio psichico del reduce, l’orrore per la guerra), fantascientifico (le armi biologiche, l’incubo degli alieni), sociologico (l’emarginazione, la torva violenza in famiglia, la perdita del figlio in un supermercato), poliziesco e thriller.
La prima parte del film si occupa del cuore di Ages e si sviluppa lenta attorno alla desolata infelicità dei protagonisti fra le luci inquietanti del pub, le atmosfere squallide della stanza del motel e l’assolato deserto .
La seconda parte si occupa della mente di Peter e si svolge nella stanza del motel trasformata in una allucinante fredda camera sterile (con pareti, soffitto, pavimento, mobili e oggetti totalmente rivestiti di carta stagnola); prende il ritmo crescente, ossessivo, frenetico e atroce della follia, diventa la rappresentazione raccapricciante di tutte le forme più crude della alienazione, della claustrofobia, dell’autolesionismo, del delirio.
La dicotomia (o meglio, la discrasia) fra le due parti è sottolineata dalla recitazione (prima spoglia e poi delirante), dai colori (prima slavati e poi lividi), dalle inquadrature (prima piatte e poi sghembe), dai movimenti di macchina (prima fluidi e poi frenetici, con macchina a spalla in un continuum ossessivo di soggettive che inducono all’identificazione), dal montaggio (in accelerazione, con inserti simbolici suggestivi).

Si esce dall’esperienza visiva - ma non si riesce ad abbandonare completamente quella stanza - con nelle orecchie il martellante frastuono degli elicotteri che arrivano minacciosi, scuotono le sicurezze, sconquassano il cervello, devastano, annichiliscono.
Con in testa il dubbio che il film non parli solo dell’America.