martedì 31 gennaio 2012

Verso Parigi (1970)

Nell’estate del ‘70, con due amici - Luigi e Giuliano - organizzammo un viaggio verso Parigi con la mia Cinquecento.
Luigi era uno dei miei più cari amici, fratello di una ragazza con cui avevo filato per qualche tempo. Il fidanzamento con sua sorella non era maturato, ma l’amicizia con lui era diventata importante. Ci frequentavamo spesso, coltivavamo gli stessi interessi, vedevamo gli stessi film, andavamo insieme a teatro, programmavamo viaggi, organizzavamo visite a città e a musei. Facevamo le ore piccole in infinite discussioni su tutto. Lui conobbe i miei amici, io conobbi i suoi.
Giuliano era un operaio che si era rotto di fare l’operaio, era stufo di abitare in paese e, perfino, non ne poteva più di chiamarsi Giuliano. Una sera si presentò al biliardo e disse che da quel momento dovevamo tutti chiamarlo Emilio: così fu, con qualche fatica e qualche confusione. Se lo chiamavamo Giuliano non si girava e non rispondeva. Per qualche tempo fu necessario, fra di noi, chiarire che l’Emilio di cui si parlava era Giuliano (… - Hai visto Emilio? … – Quale Emilio? … – Giuliano! … – Ah!...).
Per cambiare lavoro si mise a studiare, frequentò con grande sacrificio i corsi serali dell’Istituti Tecnico (lavoro, scuola, studio per qualche anno, mai una sera libera), prese il diploma, lasciò il lavoro, lasciò il paese e se ne andò a Gargnano, sul lago di Garda, dove aprì una panetteria. Nessuno mai capì - io forse si - perché si fosse diplomato per andare a fare il fornaio.
Partimmo una mattina di luglio con la mia bellissima Cinquecento blu, pagata con un pacco di cambiali.
Era il mio primo viaggio in piena libertà, con la mia macchina, con i miei amici, con un itinerario deciso e preciso anche se non vincolante. Non un viaggio come quelli organizzati dai Soci Costruttori nei campi di lavoro, con meta obbligata, compagni casuali, scarsità di tempo libero e obbligo di lavoro. Non un viaggio solitario come quelli fatti in autostop, sotto certi aspetti frenetici, sotto certi aspetti indolenti, con itinerario frammentato, con compagni di viaggio imprevedibili, aperto a rischi, faticoso.
I bagagli erano ridotti al minimo, ma ingombravano il portapacchi (preso in prestito per l’occasione), il piccolo bagagliaio e parte del sedile posteriore: il terzo passeggero ne era sommerso.
Fin dalla partenza ci prese una frenesia di arrivare: arrivare al confine, arrivare a Lione, arrivare a Parigi, arrivare all’oceano.
La Cinquecento stracarica, dopo aver attraversato la pianura a folle velocità, boccheggiava sulle strade che portavano in cima al Moncenisio: attraversammo il passo di notte e cominciammo la discesa verso Lanslebourg e Modane. La strada attraversava boschi neri e si avvitava in tornanti impossibili. Nella notte fosca non si vedevano luci di case e non incrociavamo nessuno. La spia del livello del carburante sfarfallò per un po’ e poi si accese permanente. Tememmo di aver sbagliato percorso, di calare in una valletta sperduta invece che sfociare nella valle dell’Arc. Per risparmiare benzina decidemmo con qualche titubanza di viaggiare a motore spento, perlomeno sui brevi rettilinei. Ma i rettilinei erano veramente troppo brevi. Come sempre accade quando ci si trova di fronte a problemi irrisolvibili, cominciammo a discutere e ad bisticciare: uno sosteneva che ci si dovesse fermare e attendere l’alba; un altro diceva che fermarsi in mezzo ai boschi poteva essere pericoloso, che faceva freddo, che si stava scomodi e non si poteva dormire in tre su una Cinquecento: sosteneva che era meglio proseguire a motore spento e a passo d’uomo, almeno per portarsi avanti verso il prossimo distributore che poteva anche essere a cento passi, subito dopo la curva; il terzo diceva che, appiedati per appiedati, potevamo benissimo continuare il nostro viaggio per portarci il più a valle possibile, e che una volta a secco, avremmo potuto proseguire a motore spento con le prime luci dell’alba. La stanchezza cominciava a farsi sentire. Lo spazio ristretto dell’abitacolo favoriva la aggressività. Sostenevamo le nostre tesi con acrimonia. Smontavamo le argomentazioni contrarie con astio.
Si contrapponevano, nel luogo chiuso e nel tempo breve dell’attesa dell’alba, i caratteri inclini al pessimismo con quelli propensi all’ottimismo, la calma e la fretta, la frenesia e l’inerzia, la pazienza e l’inquietudine, la voglia di correre e quella di dormire, la fame e la nausea, le diverse visioni del mondo, le diverse filosofie, il catastrofismo e la palingenesi, la rassegnazione e la ribellione, la vita e la morte.
Le luci fioche di un piccolo distributore che stava aprendo dissiparono i turbini e le tempeste. Una pisciata collettiva ci liberò dai veleni. La luce dell’alba ci svelò la dolcezza del primo giorno francese.
A mezza mattina avevamo superato Lione. Nel pomeriggio, attraversata la Borgogna, raggiungemmo Parigi. Ci fermammo qualche giorno, poi puntammo verso la Normandia: Saint Malo, Saint Michel e altri santi sparpagliati sulla costa.
Volevamo andare dappertutto e vedere tutto: maree e porti fortificati, scogliere erte e spiagge infinite, osterie e chiese. Volevamo assaggiare tutto: paté e ostriche, baguette e salumi strani, pastis e birre trappiste. Volevamo conoscere tutti: bottegai e marinai, preti e contadini, studenti e artigiani. Ho in mente – come un fermo immagine – il fotogramma di due voraci tedesche che mangiavano una intera baguette azzannando un grosso salame ungherese a morsi, senza affettarlo. Una baguette ed un salame a testa.

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