martedì 31 gennaio 2012

La donna che canta (2010) di Denis Villeneuve

In un paese ricco - il Canada - che non ha mai conosciuto guerre, vive da anni una bella famiglia di origini libanesi, una famiglia come tante, borghese, benestante e serena: Nawal, la madre, fa la segretaria presso un affabile notaio, i due figli, Jeanne e Simon, gemelli, sono perfettamente integrati nel milieu culturale e sociale del paese nordamericano.
In un tranquillo pomeriggio d’estate, in una piscina affollata, la madre ha un improvviso ed inspiegabile malore: seduta sul lettino a bordo vasca viene colpita da un violento choc, si immobilizza pietrificata, atona e incapace di reagire, non vede, non parla, non sente. Subito soccorsa, viene ricoverata. Non supera però la crisi e muore dopo pochi giorni.
Alla lettura del testamento i gemelli scoprono di avere un terzo fratello e vengono messi a conoscenza che il padre, ignoto, vive ancora in Libano. La madre vuole che i due ragazzi partano per la loro terra d’origine (della quale non conoscono nemmeno la lingua), che scovino il padre (che credevano morto) ed il fratello (che non sapevano di avere), e che consegnino loro due lettere.

Il film racconta di questo viaggio e di questa faticosissima ricerca. E intreccia questa discesa agli inferi, questa anabasi con delle analessi che evocano e ricostruiscono, in una serie di tesissimi flashback, la terribile biografia della madre, la drammatica storia di un paese sconvolto da una sanguinosa guerra civile.
Le ricerche di Jeanne e le peripezie della madre sono le tracce parallele e asincrone di due percorsi narrativi che ricostruiscono una storia sepolta. Un’epopea intricata che ricompone radici aggrovigliate e inimmaginabili verità.
Una storia che ha la tremenda complessità delle tragedie greche.

Negare il passato violento e tragico e seppellirne la memoria aiuta a sopravvivere; ma la memoria trova sempre il modo di presentare il conto: e di fronte alla orribile verità, c’è chi crolla e muore, chi si lascia annientare per sopravvivere squarciato dai rimorsi e chi invece trova il modo di capire e attraversare il dolore, di crescere e maturare, di ricostruire equilibri nuovi, ritrovare emozioni forti, rintracciare il senso di un legame e la dimensione di un affetto.

Il film non concede tregua, non percorre scorciatoie, non ci risparmia nulla, non ammette semplificazioni: è spietato come la cupa storia che racconta, ma nello stesso tempo è pietoso.
Il regista non si compiace, non cerca facili effetti, prende una misurata distanza e non concede nulla alla diffusa propensione per il sadismo e la truculenta che dilaga. Guarda alla sofferenza attraverso gli occhi di Nawal e osserva con uguale orrore la ferocia dei cristiani e quella dei mussulmani, descrive con atroce distacco e infinita desolazione la spietatezza di ogni rappresaglia e l’incomprensibile disumanità di tutti gli aguzzini, non parteggia con nessuno, non si schiera. Non condannando nessuno, stigmatizza con maggior efficacia l’empietà della violenza e l’assurdità devastante dell’odio, la disperata brutalità delle fazioni e la triste cecità degli individui.
L’ambientazione si colloca fra lo squallore dell’anonima periferia industriale di una fredda città canadese e la desolazione di città mediorientali sventrate dalla guerra, devastate e circondate da aridi paesaggi cotti dal sole.
Il montaggio ad incastro è articolato e complesso, ma nonostante i coup de théâtre ed i frequenti flash back quasi indistinguibili dalla sequenze narrative, non presenta cali di tensione
L’angosciosa vicenda è sottolineata in alcuni passaggi dallo struggente sottofondo musicale dei Radiohead che pare composto su misura. Il canto della “donna che canta” per non ascoltare la sofferenza e per sottomettersi è di un’angosciante dissonanza.

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