martedì 31 gennaio 2012

Le nevi del Kilimangiaro Les neiges du Kilimandjaro (2011) di Robert Guédiguian

Tutto il senso del film è condensato nella prima scena: gli operai di una fabbrica in crisi sono riuniti per scegliere con un desolante sorteggio i venti lavoratori da sacrificare e mandare in cassa integrazione (anticamera del licenziamento) per salvare gli altri. L’angoscia degli espulsi è mitigata dalla consapevolezza di immolarsi per tutti; il sollievo di chi si salva è guastato dalla pena per le vittime.
Un analogo dilemma si presenterà a Michel, il maturo sindacalista che ha gestito la crisi ed è finito nella lista, quando - in cassa integrazione - verrà rapinato di una grossa somma e di due biglietti per un viaggio in Africa (regalo dei figli per il trentesimo anniversario del suo matrimonio) e scoprirà che il rapinatore è uno dei giovani espulsi insieme a lui. Dopo aver denunciato il furto per tentare di recuperare il malloppo, si troverà a riflettere sulle ragioni sociali che hanno portato il giovane operaio a diventare rapinatore; e si chiederà se è giusto seguire l’istinto di conservazione o assecondare la propensione alla solidarietà maturata nei lunghi anni di militanza politica; se difendere quello che ha conquistato con tanti sacrifici o convincersi che la lotta sindacale deve proseguire anche per quelli che non conoscono la coscienza di classe; se assecondare la giustizia che vuole sanzionare le colpe e perseguire i colpevoli o quella che vuole l’attenuazione delle disuguaglianze, la comprensione degli errori, la tolleranza.
Guédiguian, nello sviluppare questa “piccola storia” è abilissimo e convincente e rivela una straordinaria naturalezza e una sorprendente sensibilità nel tratteggiare una galleria di personaggi - anche secondari - di eccezionale incisività.
Michel, il protagonista (l’eccezionale Darroussin) ci conquista per la inquietudine in cui si contorce, dibattuto fra la voglia di salvare le piccole felicità conquistate e la ostinata coerenza con gli ideali progressisti che lo hanno accompagnato per tutta la vita, scisso fra la pace privata ed i riemergenti conflitti sociali, fra la difesa del territorio e del benessere “particulare” e la infinita battaglia (“continuons le combat”) per la conquista del bene collettivo, fra l’esigenza di riposo del guerriero e il richiamo della foresta; e ci affascina e sorprende per la dolcezza con cui sa rapportarsi, dopo trent’anni di matrimonio, con la alla sua donna, Marie-Claire (una straordinaria Ariane Ascaride) commovente per la tenerezza e per la solidarietà che la lega al suo uomo, per la fedeltà che non limita la sua autonomia di giudizio, per la matura capacità di comprensione e la disincantata ironia che caratterizza il suo profondo rapporto, per la leggera delicatezza con cui affronta spaesamenti e tragedie; esile e solida, dolce e risoluta, e risolutiva.
I figli, che si rivelano meno tolleranti e più borghesemente moderati dei loro genitori, sono magistralmente abbozzati e ci dicono quanto si vada perdendo negli anni la spinta propulsiva verso una maggior giustizia sociale accesa dai vecchi idealisti figli delle rivoluzioni e dei socialismi.
E poi abbiamo l’ amico-cognato, genuino nella sua apparente insofferenza e nella insistenza con cui proclama la sua intolleranza per nascondere uno schietto carattere di burbero-benefico;  la cognata è credibile nei suoi momenti di fragilità emotiva; Christophe, il giovane “espropriatore”, arrabbiato con i meccanismi spietati della società che schiaccia gli individui, infuriato con i vecchi sindacalisti che cercano i compromessi,  dolorosamente rancoroso con la giovane madre che lo ha abbandonato e lo costringe ad assumere il ruolo responsabile di padre - dolcissimo - con i suoi due fratellini-fratellastri (memorabile la scena in cui la donna, disinvoltamente scombinata e menefreghista per scelta consapevole, affronta Marie-Claire, che la richiama ai doveri di madre, proclamando, con un’isterica furia che non nasconde la sofferenza, il suo diritto - coûte que coûte- alla felicità); ed infine il cameriere (che pare uscito dal meraviglioso mondo di Amélie), disarmante per il modo con cui legge gli stati d’animo dei suoi clienti e prescrive i cocktail giusti per ogni esigenza.

Il film scorre fra sorrisi amari e trattenute commozioni, concreto e magico, asciutto e toccante, disinvolto e rigoroso, drammatico e comico. Parla di problemi di lavoro e non cade nella retorica da comizio, tratta del disagio giovanile senza lasciarsi tentare da sermoni inutili, tocca il tema dei conflitti generazionali senza schierarsi, sostiene il valore del perdono senza farne celebrazioni ideologiche.
Il maturo regista  analizza la fragilità e ne scopre l’incommensurabile valore; svela la estrema vulnerabilità di tutti i personaggi ma sa scoprire in tutti un punto di forza che si rivela poi decisivo nello svolgimento della vicenda, descrive la desolante aridità dei rapporti umani e individua in questi deserti le oasi di tenerezza. Sempre leggero, misurato, puntuale nell’alternare con tempismo perfetto i momenti di tensione e quelli di rilassamento. 
Se il senso del film è compendiato nella scena iniziale, la morale - se così si può dire - è la strepitosamente autentica dichiarazione d’amore che chiude il film, fatta da Michel a Marie-Claire sotto l’abbacinante sole di Marsiglia.

Verso Parigi (1970)

Nell’estate del ‘70, con due amici - Luigi e Giuliano - organizzammo un viaggio verso Parigi con la mia Cinquecento.
Luigi era uno dei miei più cari amici, fratello di una ragazza con cui avevo filato per qualche tempo. Il fidanzamento con sua sorella non era maturato, ma l’amicizia con lui era diventata importante. Ci frequentavamo spesso, coltivavamo gli stessi interessi, vedevamo gli stessi film, andavamo insieme a teatro, programmavamo viaggi, organizzavamo visite a città e a musei. Facevamo le ore piccole in infinite discussioni su tutto. Lui conobbe i miei amici, io conobbi i suoi.
Giuliano era un operaio che si era rotto di fare l’operaio, era stufo di abitare in paese e, perfino, non ne poteva più di chiamarsi Giuliano. Una sera si presentò al biliardo e disse che da quel momento dovevamo tutti chiamarlo Emilio: così fu, con qualche fatica e qualche confusione. Se lo chiamavamo Giuliano non si girava e non rispondeva. Per qualche tempo fu necessario, fra di noi, chiarire che l’Emilio di cui si parlava era Giuliano (… - Hai visto Emilio? … – Quale Emilio? … – Giuliano! … – Ah!...).
Per cambiare lavoro si mise a studiare, frequentò con grande sacrificio i corsi serali dell’Istituti Tecnico (lavoro, scuola, studio per qualche anno, mai una sera libera), prese il diploma, lasciò il lavoro, lasciò il paese e se ne andò a Gargnano, sul lago di Garda, dove aprì una panetteria. Nessuno mai capì - io forse si - perché si fosse diplomato per andare a fare il fornaio.
Partimmo una mattina di luglio con la mia bellissima Cinquecento blu, pagata con un pacco di cambiali.
Era il mio primo viaggio in piena libertà, con la mia macchina, con i miei amici, con un itinerario deciso e preciso anche se non vincolante. Non un viaggio come quelli organizzati dai Soci Costruttori nei campi di lavoro, con meta obbligata, compagni casuali, scarsità di tempo libero e obbligo di lavoro. Non un viaggio solitario come quelli fatti in autostop, sotto certi aspetti frenetici, sotto certi aspetti indolenti, con itinerario frammentato, con compagni di viaggio imprevedibili, aperto a rischi, faticoso.
I bagagli erano ridotti al minimo, ma ingombravano il portapacchi (preso in prestito per l’occasione), il piccolo bagagliaio e parte del sedile posteriore: il terzo passeggero ne era sommerso.
Fin dalla partenza ci prese una frenesia di arrivare: arrivare al confine, arrivare a Lione, arrivare a Parigi, arrivare all’oceano.
La Cinquecento stracarica, dopo aver attraversato la pianura a folle velocità, boccheggiava sulle strade che portavano in cima al Moncenisio: attraversammo il passo di notte e cominciammo la discesa verso Lanslebourg e Modane. La strada attraversava boschi neri e si avvitava in tornanti impossibili. Nella notte fosca non si vedevano luci di case e non incrociavamo nessuno. La spia del livello del carburante sfarfallò per un po’ e poi si accese permanente. Tememmo di aver sbagliato percorso, di calare in una valletta sperduta invece che sfociare nella valle dell’Arc. Per risparmiare benzina decidemmo con qualche titubanza di viaggiare a motore spento, perlomeno sui brevi rettilinei. Ma i rettilinei erano veramente troppo brevi. Come sempre accade quando ci si trova di fronte a problemi irrisolvibili, cominciammo a discutere e ad bisticciare: uno sosteneva che ci si dovesse fermare e attendere l’alba; un altro diceva che fermarsi in mezzo ai boschi poteva essere pericoloso, che faceva freddo, che si stava scomodi e non si poteva dormire in tre su una Cinquecento: sosteneva che era meglio proseguire a motore spento e a passo d’uomo, almeno per portarsi avanti verso il prossimo distributore che poteva anche essere a cento passi, subito dopo la curva; il terzo diceva che, appiedati per appiedati, potevamo benissimo continuare il nostro viaggio per portarci il più a valle possibile, e che una volta a secco, avremmo potuto proseguire a motore spento con le prime luci dell’alba. La stanchezza cominciava a farsi sentire. Lo spazio ristretto dell’abitacolo favoriva la aggressività. Sostenevamo le nostre tesi con acrimonia. Smontavamo le argomentazioni contrarie con astio.
Si contrapponevano, nel luogo chiuso e nel tempo breve dell’attesa dell’alba, i caratteri inclini al pessimismo con quelli propensi all’ottimismo, la calma e la fretta, la frenesia e l’inerzia, la pazienza e l’inquietudine, la voglia di correre e quella di dormire, la fame e la nausea, le diverse visioni del mondo, le diverse filosofie, il catastrofismo e la palingenesi, la rassegnazione e la ribellione, la vita e la morte.
Le luci fioche di un piccolo distributore che stava aprendo dissiparono i turbini e le tempeste. Una pisciata collettiva ci liberò dai veleni. La luce dell’alba ci svelò la dolcezza del primo giorno francese.
A mezza mattina avevamo superato Lione. Nel pomeriggio, attraversata la Borgogna, raggiungemmo Parigi. Ci fermammo qualche giorno, poi puntammo verso la Normandia: Saint Malo, Saint Michel e altri santi sparpagliati sulla costa.
Volevamo andare dappertutto e vedere tutto: maree e porti fortificati, scogliere erte e spiagge infinite, osterie e chiese. Volevamo assaggiare tutto: paté e ostriche, baguette e salumi strani, pastis e birre trappiste. Volevamo conoscere tutti: bottegai e marinai, preti e contadini, studenti e artigiani. Ho in mente – come un fermo immagine – il fotogramma di due voraci tedesche che mangiavano una intera baguette azzannando un grosso salame ungherese a morsi, senza affettarlo. Una baguette ed un salame a testa.

Soul Kitchen (2009) di Fatih Akin

Zinos gestisce una osteriaccia in una zona marginale di Amburgo, ha un assillante fratello (Ilias) in libertà provvisoria, una fredda ragazza (Nadine) che ha altri progetti non vede l’ora di piantarlo, una bella cameriera saggia (Lucia) che lo tiene a distanza, un conoscente che fa lo speculatore edilizio (Neumann) e gli vuole soffiare il locale, gli ispettori del fisco e della sanità alle costole, un dolore alla schiena che lo tormenta, … Restato - dulcis in fundo - senza cuciniere,  è costretto ad assumere uno strampalato cuoco che odia i surgelati e si ostina a cucinare piatti raffinatissimi che lasciano perplessi e fanno fuggire gli scalcinati clienti abituali. Non gli resta che chiudere.
Per barcamenarsi in attesa di dare una svolta alla sua deriva, ospita per le prove una band che ha un buon giro di fans: i nuovi avventori apprezzano i piatti sofisticati del dogmatico chef intransigente, soprattutto quando - per errore - nel piatto del giorno si mischia un efficace afrodisiaco che alza l’umore ai convitati. Il finale, dopo il successo culinario, è intuibile.
Fatih Akin prende a pretesto la cucina e la musica (questa con più convinzione) per sfiorare con mano lieve e senza moralismi irritanti i problemi della trasformazione urbanistica e dell’integrazione, i temi dell’amicizia e dell’amore, la descrizione della realtà quotidiana fatta di pasticci e difficoltà, la narrazione della nostalgia,  l’evocazione dei sogni che qualche volta si avverano.
Lo aiuta una sceneggiatura impeccabile, da lui scritta in collaborazione col protagonista (un turco ed un greco!).
Il ritmo è quasi frenetico, da slapstick comedy, ed è assecondato da una musica di qualità (che un po’ disorienta per la sua eterogeneità ma rispecchia bene l’ambientazione e fa impazzire gli appassionati mescolando con maestria funky e soul vocale,  Rithm and Blues e canzoni popolari, elettronica  e rock , hip-hop  e sirtaki, …).
I personaggi, tutti un po’ fricchettoni svitati, sono tratteggiati con maestria, forse con qualche eccesso (ma la scelta registica che propende al gioco grottesco lo consente ed il cinema in generale forse lo richiede, considerato che la rappresentazione filmica è il concentrato della realtà …).

Uomini di Dio (2010) di Xavier Beauvois

Il piccolo convento sperduto fra le montagne dell’Atlante algerino non è l’avamposto militare di un manipolo di missionari dediti al proselitismo  e non è nemmeno la fortezza Bastiani del “Deserto dei Tartari” di Buzzati dalla quale si scruta l’orizzonte in attesa dell’orda di barbari che deve arrivare, ma è un’isola serena abitata da una piccola comunità di frati, un porto di quiete a cui approdano da tutti i villaggi della zona coloro che hanno bisogno di essere curati o confortati, di ricevere in dono un consiglio o un paio di scarpe.
La giornata dei monaci è scandita dalla preghiera e dal lavoro (ora et labora, appunto) ed il clima che si respira ci dice che la preghiera ed il lavoro sono l’intreccio sostanziale di una scelta esistenziale, l’ordito e la trama che tengono insieme la comunità, le basi complementari di un’armonia mentale che si esprime in una tangibile vocazione alla umana solidarietà.
Quando la violenza di un gruppo di integralisti islamici si profila all’orizzonte, feroce e concreta, i frati vivono un attimo di smarrimento e di paura: ma i dubbi presto si ricompongono, rivelando la compattezza della comunità e la profonda maturità dei singoli. La paura permane, ma la certezza di essere in pericolo non impedisce ai frati di decidere - sia pure dopo molte titubanze -  che non fuggiranno, non appronteranno difese né accetteranno la protezione dell’esercito, forti della loro sublime neutralità e del loro spirito di carità; e nemmeno si separeranno fra loro, legati da un senso di appartenenza che li tiene insieme al di sopra delle diversità individuali (simul stabunt, simul cadent); e soprattutto non abbandoneranno la popolazione che su di loro fa affidamento (“come uccelli sui rami”).
Affronteranno con serenità i rischi che accompagnano la scelta di restare, senza dare alla loro decisione l’enfasi isterica dei vocati al martirio. E spariranno in una notte gelida, nel silenzio delle montagne innevate.
Da punto di vista formale e stilistico, i pregi del film sono l’austerità, la sobrietà, il minimalismo misurato che si esprime con inquadrature lente, movimenti di macchina morbidi, sequenze lunghe, montaggio e ritmo pacati, pause e rallentamenti.
La penombra invade le scene girate nel convento, in contrasto con la luminosità degli esterni (campi, montagne, mercato, villaggio). 
Lo sfondo sonoro è prevalentemente costituito dai canti gregoriani e religiosi.
I dialoghi sono essenziali, tesi, densi. I silenzi sono intensamente significativi.
L’opzione registica risulta nel complesso coerente con la pacata scelta dei frati di operare nella quotidianità con moderazione, di andare incontro alla sorte con lucida serenità, di perseverare nella benevolenza anche davanti alla ferocia del fanatismo fondamentalista.

Welcome (2009) di Philippe Lioret

Bilal, un adolescente curdo, arriva clandestino, a Calais e vuole attraversare la Manica per raggiungere Mina, la sua fidanzata a Londra, ma il suo tentativo di intrufolarsi in un Tir fallisce; decide allora di passare il canale a nuoto e, per prepararsi, inizia a frequentare una piscina. Qui incontra Simon, ex campione ed  istruttore di nuoto, che intuisce immediatamente le intenzioni del caparbio ragazzo e, in qualche modo, tenta di aiutarlo.
Il regista Philippe Lioret sa intrecciare e comporre con delicata sensibilità la storia del vitalissimo ragazzo con quella dell’uomo che vive con spenta rassegnazione la sua crisi matrimoniale ed il suo fallimento esistenziale. La grintosa ostinazione del primo (mosso dalla vitalità di un affetto nascente) fa da contraltare alla desolante indifferenza del secondo (smorzato dalla accettazione di una condizione di vita declinante); ma fra i due - distanti, diversi ed  incompatibili per mille ragioni personali e culturali -  nasce, cresce e si consolida un legame assolutamente indistinguibile da quello che avvicina un padre ed un figlio, caratterizzato da disaccordi non sempre comprensibili e malcelate premure, da eloquenti silenzi e intensa tenerezza, da impellenza di separazione e bisogno di protezione.
Il film è misurato e dimesso, e - proprio grazie a questa sobrietà - riesce intenso e struggente. Il ritmo lento aggiunge efficacia allo spessore emotivo. Si esce dalla sala col groppo in gola: e questo, sia detto senza reticenze e pudori, non è un demerito.

La prima linea (2009) di Renato De Maria

Il film è curioso, sia per chi non sa nulla degli anni di piombo, sia per chi ha bisogno di uno sbrigativo ripasso per ricordarli; ma se sotto certi aspetti appare interessante, nella sostanza è piuttosto inconsistente.
Per promuoverlo e sostenerlo (prima dell’oblio e del prossimo ripescaggio televisivo, che sarà accompagnato da servizi, interviste, ricostruzioni, dibattiti e battages), è stata allestita la vetrina con il piacioso Scamarcio e la amata Mezzogiorno (belli e dannati), sono state assecondate le polemiche attorno al rischio di apologia (se ne parli, anche male, purché se ne parli), si sono sbandierate la eroica rinuncia alle sovvenzioni statali (provocata, è bene ricordarlo, dalla idiozia pura di un “ministro” che è tale, e cioè servitore, nel senso letterale del termine) e la prudente presa di distanza dell’autore terrorista redento (la quale fa bene al film e non fa male al libro).
Anche la confezione è furba: il film apre infatti con immagini agghiaccianti che hanno il potere di raggelare tutto il film, solletica la curiosità degli spettatori attorno alle misteriose abitudini dei terroristi clandestini (alloggi, spostamenti, contatti, …),  mostra l’ottusa crudeltà degli assassini che si muovono spettrali e smarriti come automi inconsapevoli (e, in definitiva, sono certamente dei criminali ma appaiono anche dei poveri cristi depressi e angosciati) e suscita facili emozioni aprendo spiragli sugli affetti dei brigatisti ante-conversione (vedi il dialogo-scontro di Scamarcio con l’amico barista, la sua affranta cena in famiglia, la infelice telefonata interrotta della Mezzogiorno con la madre).
Buono per la tv, insomma.
 

Il mio amico Eric (2009) di Ken Loach

Eric Bishop è un cinquantenne in crisi: è un postino insoddisfatto del suo lavoro (e accumula in casa posta non consegnata); è sposato e infelicemente separato; i figli non lo considerano;  vive sull’orlo della depressione; annega i residui rimpianti nell’alcool; le sue relazioni sociali si limitano alla frequentazione del bar e a bevute con gli amici-colleghi, tutti tifosi del Manchester; è un fallito rassegnato, insomma, un relitto alla deriva, un solitario che - fumando uno spinello fregato a suo figlio - si confida col poster di Eric Cantona, il suo idolo calcistico.
La vita già insopportabile gli si complica ulteriormente quando il figlio si compromette con un teppista e si caccia in una situazione davvero rischiosa:  il fantasma del calciatore che si materializzagli farà trovare, con le sue esortazioni retoriche ed i suoi proverbi,  il coraggio che non ha mai avuto;  la fantasia e la solidarietà degli amici tifosi gli risolveranno il problema.
Il finale da “arrivano i nostri”, per quanto fracassone,  lascia insoluti altri nodi: la gratitudine dei figli appare eccessiva e non potrà che essere episodica, considerato il rapporto perduto, il rispetto sgretolato e l’amorfo distacco instauratosi; la relazione con la moglie difficilmente sarà rappezzata e non basterà rispolverare le scarpe blu per ritrovare la magia dell’innamoramento; l’autostima atrofizzata negli anni non si rigenererà automaticamente rialzando il colletto della maglietta; un piccolo successo non sarà sufficiente a colmare il vuoto di troppe disfatte.
La realtà è amara e insopportabile. Loach la descrive col solito taglio efficace, con la solita sensibilità. Ma decide per una volta di affrontarla con la leggerezza insolita della commedia: invece che invocare la coscienza civica (svaporata), sollecitare la  politica (inefficace), predicare la  lotta di classe (paleontologica), svicola alla ricerca di soluzioni fantasiose (le sole possibili?).
Il più politico dei registi vuole forse suggerirci che la palingenesi partirà dalla solidarietà apolitica degli uomini qualunque, dalla lotta dei perdenti, dal coraggio di chi ha paura?

Mar Nero (2008) di Federico Bondi

All’anziana vedova Gemma (Occhini), è stata imposta la presenza di una giovane e remissiva badante rumena, Angela (Petre), ma il suo caratteraccio toscano, la bizzosità senile e la caparbia volontà di autosufficienza (stereotipi) non l’aiutano a digerire la povera ragazza che è appena arrivata in Italia e appare piuttosto disorientata (altro stereotipo). La schermaglia fra le due però si stempera gradualmente fino al punto che, quando Angela decide di rientrare in Romania per vedere che fine ha fatto il suo fidanzato desparecido, Gemma la accompagna, forse anche per “badare” alla sua frastornata amica.
Le piccole sbavature registiche e le poche incongruenze di sceneggiatura non tolgono al film il suo valore che sta tutto nella sensibilità (e abilità) che Federico Bondi dimostra nel tratteggiare il complicato rapporto fra le due donne
I lunghi piani sequenza - che descrivono quel che accade senza trascurare gli efficacissimi “tempi morti” - danno il clima e costruiscono con semplicità espressiva le dinamiche relazionali, tratteggiando con leggera delicatezza la intensità emotiva che accompagna il film.
Ilaria occhini è bella e brava, ma fa trasparire un po’ la consapevolezza di esserlo.


Sesso & potere (1998) di Barry Levinson

Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali. Il presidente incappa in un incidente analogo a quello che impiccerà Clinton. Per soffocare lo scandalo che potrebbe compromettere il risultato delle elezioni, i suoi collaboratori - guidati da Conrad Brean (De Niro) che si occupa della “immagine” -  inventano come diversivo mediatico una guerra contro l’Albania. Li aiuta Stanley Motts, produttore hollywoodiano (un fanfarone e scatenato Hoffman), che riesce a costruire nei suoi studi degli efficaci reportages dal fronte.
La lezioncina sociopolitica è evidente: la comunicazione condiziona tutto; la televisione manipola, ma per farlo deve essere a sua volta pesantemente manipolata o controllata (capito?); la politica e i politicanti, fino al massimo livello (vedi il presidente burattino), sono un prodotto che può essere imposto ai cittadini-consumatori come si impone-propone un detersivo; il pubblico è manovrabile (e la stampa pure); i media disprezzano i loro fruitori e li considerano tutti degli idioti plagiabili; chi capisce o conduce il gioco (De Niro) vince e controlla il potere; chi non si adegua, anche solo per vanità o per ambizione (Hoffman) è destinato a soccombere. 
La sceneggiatura è magistrale (non poteva essere diversamente, considerato che il film si gioca tutto sulla sceneggiatura di una sceneggiatura!); il ritmo adeguatamente vertiginoso; la tensione alta dall’inizio alla fine; la recitazione mascalzona quanto serve.
Solo il titolo italiano è cretino, ma di quello nessun autore ha colpa.

Mine vaganti 2010) di Ferzan Özpetek

Tutti, con Ferzan Özpetek,  sappiamo che, nella realtà, la nostra tragicommedia non finirà tra balli e timidi sorrisi di rappacificazione con l’amor che vince tutto, consolatorio e dolce, con il pianto e la gioia trattenuti e le emozioni in libertà. Ma per 110 minuti possiamo almeno provare a crederci; possiamo rassicurarci nel vedere che c’è chi può scrollarsi di dosso la dissimulazione, chi tenta di uscire da una condizione di disequilibrio, chi ama ed è tenace, chi si impegna a sacrificarsi, chi prova tenerezza. Non importa se l’allegria che circola nel film è qualche volta eccessiva e farsesca; se alcuni passaggi o personaggi sono troppo indefiniti (la sposa fuggiasca, la sorella sottovalutata) e altri troppo “caratterizzati” (vedi la zia assetata di alcool e affamata di maschi, il padre infedele e moralista, la madre consapevole cornuta, le macchiette gay, gli invitati provinciali ingordi, i cliché delle pettegole,…). Non importa se i segreti (e bugie) di famiglia sono così poco segreti, al punto da farci sospettare che tutti i personaggi, comprese le comparse, siano in qualche modo potenziali mine vaganti (che fanno brillare, nel senso di “esplodere”, la verità, quella “che fa male”).
Vale la pena ridere e recitare; e cercare il lieto fine: quello che arriverà alla fine del film ma che sfumerà al termine dei titoli di coda. Perché così è: noi, persone reali, non saremo mai quel che desideriamo essere; e non riusciremo mai a sembrare quel che vogliamo sembrare. Oscilleremo continuamente fra maschera e realtà, confondendoci da soli.
La brava Iliaria Occhini, incongrua rispetto a tutti e per questo depositaria di un alto valore simbolico, ci consegna col suicidio una chiave interpretativa. La scorpacciata di pasticcini è come la scorpacciata di emozioni che viviamo guardando l’esilarante, vitalissimo, spregiudicato, grottesco  film che - per chi non si lascia obnubilare dalla comicità - rappresenta un divertente modo di suicidarsi, nella consapevolezza che non sarà sicuramente una risata a renderci liberi.
Anche il ballo finale - consolatorio ma irreale, quasi onirico - è lì per dire che solo al cinema si può disegnare e sognare qualcosa di diverso “sopra” la realtà. Ma solo al cinema.


La donna che canta (2010) di Denis Villeneuve

In un paese ricco - il Canada - che non ha mai conosciuto guerre, vive da anni una bella famiglia di origini libanesi, una famiglia come tante, borghese, benestante e serena: Nawal, la madre, fa la segretaria presso un affabile notaio, i due figli, Jeanne e Simon, gemelli, sono perfettamente integrati nel milieu culturale e sociale del paese nordamericano.
In un tranquillo pomeriggio d’estate, in una piscina affollata, la madre ha un improvviso ed inspiegabile malore: seduta sul lettino a bordo vasca viene colpita da un violento choc, si immobilizza pietrificata, atona e incapace di reagire, non vede, non parla, non sente. Subito soccorsa, viene ricoverata. Non supera però la crisi e muore dopo pochi giorni.
Alla lettura del testamento i gemelli scoprono di avere un terzo fratello e vengono messi a conoscenza che il padre, ignoto, vive ancora in Libano. La madre vuole che i due ragazzi partano per la loro terra d’origine (della quale non conoscono nemmeno la lingua), che scovino il padre (che credevano morto) ed il fratello (che non sapevano di avere), e che consegnino loro due lettere.

Il film racconta di questo viaggio e di questa faticosissima ricerca. E intreccia questa discesa agli inferi, questa anabasi con delle analessi che evocano e ricostruiscono, in una serie di tesissimi flashback, la terribile biografia della madre, la drammatica storia di un paese sconvolto da una sanguinosa guerra civile.
Le ricerche di Jeanne e le peripezie della madre sono le tracce parallele e asincrone di due percorsi narrativi che ricostruiscono una storia sepolta. Un’epopea intricata che ricompone radici aggrovigliate e inimmaginabili verità.
Una storia che ha la tremenda complessità delle tragedie greche.

Negare il passato violento e tragico e seppellirne la memoria aiuta a sopravvivere; ma la memoria trova sempre il modo di presentare il conto: e di fronte alla orribile verità, c’è chi crolla e muore, chi si lascia annientare per sopravvivere squarciato dai rimorsi e chi invece trova il modo di capire e attraversare il dolore, di crescere e maturare, di ricostruire equilibri nuovi, ritrovare emozioni forti, rintracciare il senso di un legame e la dimensione di un affetto.

Il film non concede tregua, non percorre scorciatoie, non ci risparmia nulla, non ammette semplificazioni: è spietato come la cupa storia che racconta, ma nello stesso tempo è pietoso.
Il regista non si compiace, non cerca facili effetti, prende una misurata distanza e non concede nulla alla diffusa propensione per il sadismo e la truculenta che dilaga. Guarda alla sofferenza attraverso gli occhi di Nawal e osserva con uguale orrore la ferocia dei cristiani e quella dei mussulmani, descrive con atroce distacco e infinita desolazione la spietatezza di ogni rappresaglia e l’incomprensibile disumanità di tutti gli aguzzini, non parteggia con nessuno, non si schiera. Non condannando nessuno, stigmatizza con maggior efficacia l’empietà della violenza e l’assurdità devastante dell’odio, la disperata brutalità delle fazioni e la triste cecità degli individui.
L’ambientazione si colloca fra lo squallore dell’anonima periferia industriale di una fredda città canadese e la desolazione di città mediorientali sventrate dalla guerra, devastate e circondate da aridi paesaggi cotti dal sole.
Il montaggio ad incastro è articolato e complesso, ma nonostante i coup de théâtre ed i frequenti flash back quasi indistinguibili dalla sequenze narrative, non presenta cali di tensione
L’angosciosa vicenda è sottolineata in alcuni passaggi dallo struggente sottofondo musicale dei Radiohead che pare composto su misura. Il canto della “donna che canta” per non ascoltare la sofferenza e per sottomettersi è di un’angosciante dissonanza.

Midnight in Paris (1911) di Woody Allen

In Midnight in Paris,  Gil compensa le insoddisfazioni esistenziali, professionali e sentimentali con delle brevi fughe nel passato (e precisamente negli amatissimi anni Venti e nella adoratissima Ville Lumière), così come Mia Farrow  in La rosa purpurea del Cairo cercava l’evasione dalle frustrazioni cancellando il diaframma fra realtà e finzione costituito dallo schermo del cinematografo.
Woody Allen racconta ancora una volta con incantevole leggerezza la favola deliziosa dell’allontanamento, della alienazione per la sopravvivenza, della ricerca improbabile felicità.
E come è suo solito, lo fa con grande mestiere e mano lieve, crea situazioni divertenti, gioca con  tempismo sulle incongruenze spaziotemporali, usa con sapienza l’arte del contrappunto, costruisce dialoghi spumeggianti, sforna a raffica le sue inesauribili battute esilaranti.
L’incipit ci presenta una Parigi da cartolina, ma lo scorrere dei quadri con quell’accompagnamento musicale - per quanto mielosamente prevedibile - commuove tutti quelli che amano Parigi e ci vogliono tornare, e sorprende chi non conosce Parigi e desidera andarci.
Nel suo viaggio a ritroso nel tempo Gil incontra Francis Scott Fitzgerald con la sua Zelda, Hemingway e Picasso, Gertrude Stein e Matisse,  Dalì e Cole Porter, Man Ray e Luis Buñuel: o meglio, incontra le loro caricature, le macchiette di questi personaggi, ne costruisce la rappresentazione archetipa, crea la personificazione stereotipata delle figure che emergono dal suo ingenuo immaginario. Hemingway beve, è rissoso, si accompagna con un torero, parla della guerra, progetta un viaggio in Africa e si cita continuamente addosso;  Scott Fitzgerald e la sua giovane flapper sono romantici e spregiudicati, frivoli e anticonformisti, proprio come vuole la leggenda e come si presentano i personaggi dei primi racconti di successo dello scrittore americano; Pablo Picasso si esibisce con l’incipiente calvizie ed è già impelagato nella sua intricata vita sentimentale;  Gertrude Stein riceve nella sua mitica abitazione in rue de Fleureus 27 che ha le pareti tappezzate di quadri dell'avanguardia e pontifica recensendo opere di scrittori della Lost Generation; Matisse smercia i suoi quadri con la complicità dei collezionisti influenzati dalla Stein; Dalì farnetica di rinoceronti che si accoppiano; Buñuel se ne sta taciturno in disparte e si disorienta all’imbeccata di Gil che, venendo dal futuro, gli suggerisce lo spunto per L’angelo sterminatore.
La trama è sfilacciata, la consistenza narrativa è debole, la struttura è appena imbastita: ma questo non conta. Il divertimento è assicurato dalla simpatica idea iniziale, dalla accattivante sceneggiatura, dalla abilissima regia,  da un cast - soprattutto femminile - affascinante, da una recitazione spigliata e vivace, gioiosa e divertente.
Gli incontri magici, accaduti o immaginati, sortiscono il loro effetto: Gil ritrova il coraggio di rompere con la tranquilla sicurezza che gli viene offerta da un matrimonio interessante e tenta - sia pure nel presente, sia pure sotto la pioggia - di fare il primo piccolo passo verso la coerenza, più che verso la concretizzazione del suo sogno.
Musica. Titoli di coda.

This must be the place (1911) di Paolo Sorrentino

Considerata l’omogeneità e la coerenza della cifra stilistica complessiva, è necessario premettere che la irritante lentezza del film non è casuale, così come non è incidentale l’esasperante inerzia dei movimenti da bradipo del protagonista, il suo eloquio pigro, il suo sguardo sempre patologicamente fisso, la sua indolenza caratteriale, la sua rilassata apatia. 
Cheyenne, ex-rockstar in disarmo, nonostante il benessere garantito dai diritti d’autore, vive stancamente la sua decadenza nella campagna irlandese. Senza troppe illusioni crede di frenare il declino nascondendosi dietro la maschera quasi grottesca che ha connotato, negli anni Settanta, la sua immagine pubblica di divo del rock (sottogenere dark) ed ha accompagnato la sua carriera segnandone il successo.
L’incapacità di essere autentico e la paura di scoprirsi (sia nel senso di riconoscersi che in quello di rivelarsi)  lo portano a curare ogni mattina il suo laboriosissimo trucco, a coprirsi di ciprie e ceroni, a farsi le labbra vermiglie e gli occhi bistrati, ad acconciarsi la testa come un cespuglio, a presentarsi mascherato a se stesso, nello specchio, prima di tutto, e poi alla sua indulgente e assennata compagna e al mondo;  e di non rinunciare al suo travestimento nemmeno per sedersi a colazione, per recarsi al supermercato e per giocare alla pelota nel fondo della piscina asciutta della sua sontuosa villa.
Il processo di imbalsamazione non interessa solo l’immagine: anche la testa, il cuore, la memoria, le emozioni, gli affetti, le relazioni, hanno subito un trattamento analogo. La vita si snoda in una quotidianità tranquillizzante fatta di piccole consuetudini fisse, di riti reiterati, di gesti ripetuti, di relazioni consolidate; e ovviamente di depressioni ed isterie contenute, di mediocrità più o meno consapevoli, di sconforto e rassegnazione.
Il futuro non va oltre la misura del giorno; il presente ha la rassicurante consistenza del piccolo trolley che in nostro eroe triste si trascina dietro ovunque; il passato non esiste.
La vacuità si rivela improvvisamente quando Cheyenne viene richiamato a NewYork per la morte del suo vecchio padre, fino ad allora ignorato, trascurato, odiato, dimenticato.
Si ritrova davanti al cadavere di un estraneo. Rivede il tatuaggio dei sopravvissuti all’Olocausto. Si ritrova a scorrere gli appunti meticolosamente raccolti dal vecchio nella lunga e laboriosa ricerca del suo aguzzino; e resosi conto che la pignola indagine stava per raggiungere i risultati, decide di portare a termine l’investigazione e di cercare l’ufficiale nazista per vendicare le umiliazioni patite dal padre.
E parte .
Il disordinato on-the-road ricorda vagamente la trilogia della strada di Wenders e qualcosa di Antonioni.
Il suo viaggio sulle tracce del criminale diventa anche un viaggio metaforico attraverso la desolazione di una società in declino, un cammino di recupero della realtà (la sua e quella del mondo che lo circonda), un percorso verso l’autoconsapevolezza e la metamorfosi (anche se, in un passaggio, Sorrentino gli fa dire “Non sto cercando me stesso. Sono in New Mexico non in India”!).
Paesaggi desolati , strade che tagliano il deserto, campagne piatte, chiese vuote, armerie allucinanti, case isolate che si ergono nel nulla, bar che sembrano il set dei lividi quadri di Hopper.
Lungo il tragitto incontra un’umanità sofferente e smarrita: la vedova di guerra alla deriva col suo figliolo obeso e disadattato, il tatuatore triste e disorientato, il petulante inventore della valigia a rotelle, il nativo taciturno che torna alle sue montagne, … 
Ed alla fine del viaggio trova un decrepito e patetico nazista  che coltiva ricordi autoconsolatori e sa offrire giustificazioni ragionevolmente accettabili ai propri crimini.
Ma Cheyenne non si lascia abbindolare: conosce bene, per averli sperimentati su di sé, i meccanismi della inerzia autoassolutoria: non infierisce, ma nemmeno perdona.
Prima di tutto fa denudare il vecchio e lo fa camminare nella neve, mettendolo nella condizione di assaggiare la crudeltà di chi è più forte e di sperimentare l’umiliazione, la paura, il gelo.
Poi denuda se stesso: si toglie la maschera dietro a cui si è nascosto per tutta la vita e comincia ad affrontare la realtà che ha sempre eluso e ad affrontare, senza trolley, la sua vita irrisolta.
Sean Penn sarà ricordato per questo ruolo: è assolutamente sorprendente la sua abilità a districarsi in questa difficilissima prova in cui deve dosare la misura del grottesco con ironia e disincanto per interpretare un personaggio al limite della caricatura. 
 

mercoledì 11 gennaio 2012

Faust, di Aleksandr Sokurov (2010)

Spiazzante, disagevole, inquietante, duro, livido.
Fin dalle prime inquadrature l’impatto è sconcertante: la cinepresa spazia nel cielo infinito e plana  lentamente sopra una fumosa città annidata in un vallone compresso fra un mare grigio e una montagna ferrigna, scivola fra i muri scrostati di una strada tortuosa, penetra in un tugurio sordido e freddo, indugia sul dettaglio del pene bluastro di un cadavere in decomposizione che Faust sta dissezionando mentre spiega al suo importuno discepolo che fra quei visceri maleodoranti non può trovare spazio l’anima.
Tutto il film si snoda poi in spazi opprimenti, fra straducole strette, portici e sottopassi bui, piazze inclinate, passaggi angusti (con corpi che si accalcano), case sghembe, stanze strette e basse ingombre di masserizie inutili e popolate da un brulicume di topi, scale avvitate e ripide, porte sospese che si aprono nel vuoto.
Ad accrescere il disagio ci sono le scelte registiche con inquadrature storte, piani obliqui, movimenti di macchina confusi, deformazioni ottiche, sfuocature, viraggi verso un monocromo verde marcio, primi piani esasperanti. 
I personaggi si accalcano nel quadro (quattro terzi) e lo riempiono accavallandosi spesso innaturalmente gli uni sugli altri, indaffarati in movimenti e gesti inutili e collocati in una contiguità imbarazzante, in una continua ressa confusa, in una puzzolente promiscuità greve e tetra che mette a disagio e suscita repulsione. I gesti e le posture sono innaturali. I dialoghi sono incongruenti, le riflessioni illogiche, i vaniloqui incomprensibili e vani, i discorsi - infarciti di teatrali e innaturali citazioni goethiane - appaiono assurdi, improbabili, scoordinati. 
Quando si esce dall’opprimente atmosfera della città, ci si ritrova in lande spoglie, boschi contorti e nudi, forre selvagge, pietraie tetri, valloni opprimenti e claustrofobici. La sensazione di gelo è persistente e assoluta: l’unico elemento di calore che ritroviamo in centotrentaquattro minuti di terrificante freddo è dato dalle immagini infernali di un geyser che vomita getti di acqua calda inutili nella desolazione di un paesaggio polare.
Una sequenza dopo l’altra, anche lo spettatore viene risucchiato in quella atmosfera persistente di lividume freddo e si ritrova immerso al punto di percepire fisicamente il gelo e il lerciume, la fame  e la nausea, il disagio e l’angoscia. 

Faust attraversa la sua dolorosa vicenda sbigottito, senza i furori tragici e la pulsione eroica che gli assegna il suo mitizzato epos. Ha la fame materiale del pane e della carne, non quella cerebrale della conoscenza assoluta; non ha la sete astratta del veder realizzati i suoi immateriali ideali politici, morali ed estetici, ma viene mosso dalla sete fisica del corpo liscio e caldo di una donna, incerto fra la carnalità e l’idealizzazione,  fra la trasfigurazione solarizzata della passione e la curiosità dell’ispezione vaginale.

La tentazione - a fine spettacolo - è quella di cercare rimandi, ispirazioni, maestri.
Viene in mente - confusamente - il cinema di Murnau e di Dreyer, ma anche quello di Ingmar Bergman e Tarkovskij;  i quadri di Jan Wermeer, Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel il Vecchio; e la Commedia di Dante.


Adam resurrected, di Paul Schrader (2008)

I distributori italiani non hanno preso in considerazione questo film, troppo ostico e indigeribile per il pubblico lobotomizzato che affolla le nostre multisale.

La insopportabilmente cupa storia di Adam Stein, ebreo tedesco, si articola in tre tempi: nel primo - anni ’30 - Adam è un irresistibile intrattenitore di cabaret, mago, prestidigitatore, cantante e ballerino che raccoglie enorme successo di pubblico (anche presso i nazisti che stanno conquistando il potere); nel secondo tempo viene internato, insieme alla moglie e alle due figlie, in un campo di sterminio e salva la pelle facendo letteralmente il cane per il comandante nazista (suo ammiratore in tempo di pace) e suonando il violino per accompagnare nelle camere a gas i deportati (fra cui i suoi cari); nel terzo tempo infine - anni ’60 - si ritrova ospite forzato in un struttura sanitaria isolata nel deserto dove, con altri sopravvissuti persi nei loro disagi psichici, tenta di raggiungere un difficile compromesso con la fatica di sopravvivere e di trovare una normalità tanto desiderata quanto temuta e insostenibile.
Qui, nella desolazione assoluta di un ospedale-lager asettico  dalle architetture essenziali inserito in uno scenario riarso e arido, Adam entra in contatto con un “enfant sauvage” che come lui ha subito maltrattamenti e come lui - sia pure in circostanze diverse - è stato costretto ad  assumere i comportamenti di un cane, inselvatichendosi al punto di subire una sorta di mutazione e diventare cane, ferocemente diffidente, rabbioso ed inavvicinabile.
Fra loro scatta, tra mille incertezze e angosce riesumate, la “sin-patia”: le due vittime della sadica bestialità umana si fiutano, si riconoscono, trovano inspiegabilmente la voglia istintiva di scampare dalla negatività, dal disfacimento e dall’inevitabile desiderio di autodistruzione, arrancano nel buio dell’incertezza per salvarsi reciprocamente, si sorreggono a vicenda per scrollarsi di dosso la insopportabile colpa di esistere.  (Noi siamo i sopravvissuti. Non è un delitto ...)

Il film, estremamente duro e disturbante, si snoda sui tre livelli temporali in un continuo intrecciarsi di flashback volutamente disorganici e inquietanti, organizzato sul filo illogico degli incubi che riemergono e delle angosce rievocate.
La regia è asciutta, essenziale; evita gli scivolamenti nel melodramma e nello psicodramma e non si lascia tentare da facili allusioni alla storia o alla politica.
Cupo il bianco e nero dei ricordi, abbacinanti i nitidi colori del presente, allucinati i cromatismi dei deliri.
Il protagonista, lo straordinario Jeff Goldblum, sa alternare con convincente efficacia momenti di istrionismo dissacrante e crisi di panico e smarrimento, passando da scene di surreale comicità a situazioni di devastante disperazione. Cinico e pietoso nello stesso tempo, impudente e fragile, egotista e compassionevole, lucido nell’ironia, spento e annichilito nell’angoscia.
  

A Serious Man, di Ethan e Joel Coen

Un film agghiacciante e divertente nello stesso tempo, esilarante e crudele, comico e caustico. In sala si ride a più riprese, ma il retrogusto che si insinua  negli interstizi dell’anima – una scena dopo l’altra – è di una amarezza sconfinata.
L’uomo serious del titolo è Larry, un quarantenne onesto, retto, mite, indulgente, conciliante, remissivo: un uomo buono, insomma, o un buon uomo. É sposato con una donna ineccepibilmente amorfa, ha due figli distaccati e menefreghisti come di regola, svolge con sufficiente impegno il suo lavoro da insegnante, possiede una bella casa molto americana col suo tappeto erboso, partecipa con distratta indifferenza ai cerimoniali della comunità ebraica a cui appartiene,…
Nel giro di pochi giorni i cardini su cui poggia la sua ordinaria esistenza vengono messi a dura prova: su di lui si addensa la sfortuna, si concentrano le avversità; attorno a lui – come attorno al Giobbe della sua tradizione biblica – tutto si scompone e si sfascia.
Il povero Larry attraversa catatonico il suo labirinto di sventure, disorientato dalla cattiveria di chi gli è vicino, dalla mancanza di riconoscenza, dal cinismo, dall’indifferenza impudente o da una finta attenzione ipocrita, dal perbenismo distaccato o infido, dall’egoismo. In una condizione di estraneità dolorosa (per dirla con Moravia) non riesce a ribellarsi (non lo ha mai fatto in tutta la vita); non riesce a bestemmiare (incredulo della atrocità di quel che gli accade); non riesce a pregare  (scombussolato dalla incomprensibile imperturbabilità del cielo). Il suo sorriso, sequenza dopo sequenza, si va congelando più per la sorprendente assurdità delle sue sventure che per il dolore.
Un uragano, non metaforico, potrà chiudere l’atroce mulinello di disgrazie che lo sta inghiottendo. O forse lo risveglierà da un incubo.