venerdì 23 dicembre 2011

E' ormai risaputo: per una riga ragionevole, per una notzia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini  verbali e di incoerenze.
(Jorge Luis Borges, in La biblioteca di Babele, in Il giardino dei sentieri che si biforcano, in  Finzioni).

domenica 4 dicembre 2011

La poesia

Poca cosa, una poesia, un cartellino messo su un posto vuoto. Un poeta lo sa e non le dà troppo credito, ma ne dà ancora meno al mondo che lo celebra o lo ignora.
          Claudio Magris, Microcosmi.

domenica 20 novembre 2011

Qui ad Atene noi facciamo così



Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell'Eliade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.

(Dal discorso di Pericle agli ateniesi, del 461 a. C. - Citato da Alberto Piccinini nella rubrica  “Vuoti di memoria” su Il manifesto, 28 giugno 2011) 

domenica 6 novembre 2011

Buon viaggio

... non ho più aperto una lettera ... mai, dopo aver preso atto che perfino le più urgenti erano meno urgenti dopo una settimana, e che dopo due mesi neppure chi le aveva scritte se le ricordava.
Gabriel Garcia Marquez, Buon viaggio signor presidente in Dodici racconti raminghi.

martedì 6 settembre 2011

La doppia morte di Quincas l'Acquaiolo (di Jorge Amado)

Quincas, con una scelta anarchica e libertaria, ha abbandonato il perbenismo di una famiglia piccolo-borghese per immergersi nella autenticità della vita della suburra di Bahia, fra ubriachi e prostitute. Ora, da morto, corre il rischio di essere recuperato dagli ipocriti parenti, restituito al grigio mondo civile e ripulito da lordure e peccati, per essere ricomposto e dignitosamente sepolto.
Viene però “salvato” da uno scombinato quartetto di amici - gli indimenticabili Negro Brillantina, Pettirosso, Piedivento e Comandante Martim - che lo riconducono nel loro e suo mondo, nelle osterie del porto e sul peschereccio di Capitan Manuel, per “rivivere” un’ultima notte di fuoco, fra solenni bevute di cachaça e scorpacciate di zuppa di razza. Il morto - coerentemente con la sua unica scelta esistenziale - decide di scomparire nel mare in tempesta, sussurrando alla sua bella Quitéria Occhigrandi: “Mi seppellisco quando voglio e all’ora che mi pare. Potete mettere via la bara per un’altra occasione. Non mi lascerò rinchiudere in un buco sottoterra”.

Può essere curioso confrontare il racconto di Amado con la novella di Pirandello “Il treno ha fischiato …” nella quale il protagonista, il computista Belluca, prende consapevolezza della sua condizione (”vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi”), ma non riesce a ribellarsi e liberarsi se non con la fantasia. ("C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava...Mentr'egli qua viveva questa vita “impossibile", tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi... c'erano gli oceani... le foreste...").

On the road, di Jack Kerouac

Un libro scombinato e bislacco, stravagante ed eccentrico, scanzonato e cialtrone, provocatorio, senza mai essere indisponente. In alcuni passaggi è davvero esilarante. Le interviste ai vip sono folgoranti nella loro genialità.
Dalle pagine trapela ogni tanto qualche intento moralistico, ma l’autore sa occultare e camuffare bene le sua propensione pedagogica: si rimette la maschera del buffone e torna ad irridere tutti con la sua spiazzante ironia, a demolire tutto col suo istintivo sarcasmo.
In alcuni passaggi la satira assume toni amari e la desolazione sembra prendere i sopravvento, ma l’istinto beffardo tiene tutto sotto controllo.
Solo nel pezzo intitolato “Looney Tunes” il giullare mattacchione si lascia sommergere da una pena infinita e scrive sei pagine struggenti che da sole valgono tutto il libro.

Oltre il confine

Billy si allontana da casa per riportare sulle sue montagne una lupa feroce, esaltando e negando nello stesso tempo il bisogno di protezione che offre il luogo in cui si nasce, valorizzando e rinnegando il bisogno di indipendenza che porta ad allontanarsi dal nido.
Attraversa montagne e pianure, praterie infinite e paesi, strade e fiumi, boschi e deserti, alla ricerca di quel senso indefinito di libertà che si può trovare solo oltre il confine, dove finisce l'orizzonte. Incappa in poveri contadini generosi, in avventurieri sadici, cacciatori silenziosi, preti folli, vaqueros erranti, zingari filosofi, rivoluzionari allo sbando. Ascolta le loro storie. Conosce la solitudine e la violenza, la fame e la paura, la solidarietà e l'ingiustizia, l'egoismo e la poesia, la fatica e la tenerezza, il dolore e la morte.
Prende una direzione ma asseconda ogni digressione, ben sapendo che le digressioni - sulla strada come nella vita - costituiscono l'essenza di ogni percorso; e che la vita si sconta vivendo; e che il futuro lo si costruisce camminando, perché "ogni giorno è fatto dei giorni che l'hanno preceduto".

Cormac McCarthy, Oltre il confine, in Trilogia della frontiera, Einaudi 2008

On the road

Lo rileggo a distanza di qualche decennio (per vedere l'effetto che fa!).
È stato, si dice, il manifesto della bitgenerescion: lo è ancora, anche se - a questa distanza - si presenta un po’ agé (comme il faut), slavato e lacero come un décollage di Mimmo Rotella.
Confuso era e confuso resta, ma - a ben vedere - si tratta di una confusione intenzionale, da alterazione (come si fa a non capirlo?!): un trip in tutti i sensi, durante il quale è più che naturale perdersi.

sabato 20 agosto 2011

Fabbricare poesie

Perché fabbricare poesie invece di ricorrere alla spontanea immediatezza della prosa?
Sembrerà incoerente, ma il ricorso ai versi è paradossalmente dattato dal pudore: la prosa ti espone senza mediazioni e diaframmi; la poesia si frappone con la sua costruzione artificiosa e ti consente di parlare senza ostentazioni dirette.

Chi scrive versi svia in qualche modo l’attenzione del lettore dall’autore al contenuto e tenta di farsi dimenticare: e questo vale, sempre paradossalmente, perfino per la poesia più banalmente intimista: il poeta dolente si lagna e pone la sua privata esasperazione al centro dell’universo ma - con la smaccata pretenziosità della finzione poetica - si affanna a indagare le ragioni incomprensibili della sofferenza in generale e mostra di voler scavare nel suo disagio per capire il disagio universale.

venerdì 5 agosto 2011

Essere, avere, apparire

Guy Debord, nella sua opera più nota (La società dello spettacolo del 1967) scriveva:
"La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato, nella definizione di ogni realizzazione umana, un’evidente degradazione dell’essere in avere.
La fase attuale dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima".
Questa involuzione è giunta alla sua terza fase, forse imprevedibile nel '67: oggi l'apparire tocca un punto di esasperazione tale per cui - superata la necessità di possedere la sostanza dell'essere e superato anche il bisogno vanesio di esibire quel che si è o si ha - si impone la consuetudine di ostentare i segni apparenti dell'essere e di sfoggiare gli orpelli che simboleggiano l'avere, in una plateale e volgare rappresentazione di uno status che non basta a nascondere la sostanziale inconsistenza e la sconfortante vacuità.

martedì 19 luglio 2011

Resistere

Il pendolo governa la storia.
Periodi scuri si alternano a periodi di raffinata civiltà: Grecia e Roma sono rase al suolo da invasori brutali, il fulgore del Rinascimento si liquefa nei sotterranei dell'Inquisizione, la Rivoluzione produce il Terrore, gli ideali del Risorgimento generano i nazionalismi fascisti, la Resistenza è normalizzata e poi tradita dal conservatorismo ipocrita e corrotto dei democraxiani.

Allo stesso modo, lo stile di vita - il welfare - conquistato negli anni ’60 e ’70 (insieme alla sua appendice degenerata che è la deriva consumista di cui il berlusconismo è bandiera) è ora messo in crisi e sta per essere annientato dal nuovo inafferrabile moloch costituito dal sistema dei mercati finanziari (la vera “internazionale” che governa processi e crisi con cinica indifferenza).

Siamo nel guado, e non conosciamo l’esito di questa indecifrabile crisi.

Riusciranno i tumulti dei precari e le folle acefale che riempiono le piazze a frenare il contagio universale? Le nostre flebili proteste riusciranno a farsi sentire? La nostra scorata resistenza basterà a contenere la frana; il nostro affannato remare riuscirà a contrastare lo tsunami che viene da lontano? Basterà la rete degli incazzati a fermare gli squali? Riusciranno i blog a fermare il blob? C’è ancora spazio, se mai ce n’è stato, per l’araba fenice che chiamiamo “democrazia diretta”?

giovedì 14 luglio 2011

Oltreonda

"Si domandava cosa sarebbe successo alle persone della vicenda, con la radio spenta, se lei e sua madre non l'accendevano"
Alice Munro, Post and beam in Nemico, amico, amante.

... Anche la nonna di una mia amica si indisponeva se qualcuno spegneva il televisore durante il telegiornale. Diceva che era segno di cattiva educazione spegnere così e interrompere uno che stava ancora parlando.

Piazza Loggia

Brescia, 28 maggio 1974.
Non ero in piazza Loggia al momento dello scoppio della bomba. Per non so quale ragione, avevo sottovalutato l'invito alla manifestazione ed ero da qualche altra parte a fare altro. E ancora me ne vergogno.
Non ricordo dove e come mi arrivò la confusa e spaventosa notizia. Allora non c'erano i cellulari.
Mi precipitai in città passando prima dalla scuola di cinema che in quel periodo stavo frequentando: l'allarme suscitato dalla notizia della strage, il terrore, la concitazione, ... non mi impedirono di cedere al desiderio di arrivare in piazza con un mezzo qualsiasi che documentasse l'avvenimento. Caricai in macchina un videoregistratore: si trattava di un pesantissimo armamentario costituito da una videocamera collegata ad un ingombrante cassone con rulli di nastri magnetici alimentato da una batteria separata grande e pesante come quella di un' automobile.
Parcheggiai la Cinquecento lungo Via S. Chiara, in divieto di sosta, ed arrivai subito nella Piazza.
La folla si accalcava attorno alla zona dell'esplosione disegnando un ampio cerchio.
Avevano appena finito di raccogliere morti e feriti. Il selciato era ancora orrendamente insanguinato in diversi punti. Mi sembra di ricordare che nello spiazzo ci fossero sparpagliati indumenti, stracci, brandelli, scarpe, aste di bandiera, teli, borse, una bicicletta, ombrelli,...
C'era un terribile silenzio. Si sentivano solo gli urli delle sirene di ambulanze o polizia. C’erano i pompieri in piazza, e anche poliziotti, vigili, carabinieri. Insieme agli uomini del servizio d’ordine dei sindacati tenevano i margini della folla che però non premeva. Le facce di tutti erano impietrite. Un pompiere col getto d’acqua di una manichetta lavava i lastroni di pietra del palazzo del Monte di Pietà, chiazzati di sangue ed insisteva col potente getto su un grumo ostinato spiaccicato sul muro.
Accesi la telecamera e cominciai le riprese: girai una panoramica sulla piazza e sulla siepe di gente, feci qualche inquadratura sullo spiazzo insanguinato, sul pompiere indaffarato, sugli oggetti sparsi, sugli spigoli del pilastro sbrecciati dall’esplosione. Poi montai faticosamente sul bordo della fontana, l’altra fontana, per avere una visione dall’alto: in equilibrio precario, con tutto quel peso sulle spalle, cominciai a riprendere quello che mi si presentava davanti. Sentivo la necessità di documentare sia la situazione oggettiva che la concretissima tensione emotiva che colmava la piazza; senza mai staccare alternavo i campi lunghi ai primi piani delle persone, panoramiche e dettagli, ...
Dalle fabbriche cittadine - Pietra e Tempini, OM e Sant'Eustachio - stavano affluendo in piazza gli operai che, alla notizia dello scoppio, avevano tutti sospeso il lavoro. Il gelo attraversava l'aria.
Un operaio che indossava ancora la sua tuta blu, con un filo di voce sommesso, improvvisamente, nel silenzio, intonò la canzone partigiana “Fischia il vento, urla la bufera”. Ci fu un attimo di smarrimento. Ci guardammo sbigottiti, imbarazzati. Poi qualcuno, qua e là, si unì al vecchio operaio. Ogni contrada è patria del ribelle …”. C’era chi scandiva le parole con rabbia, chi le mormorava con dolore, chi accompagnava la melodia a bocca chiusa, chi taceva e stringeva i denti.
Davanti a me, nella prima fila, alcuni si cercarono le mani e se le tennero come per fare una catena. “Se ci coglie la crudele morte, dura vendetta verrà dal partigian …”. Nell’aria si alzarono alcuni pugni chiusi. Le voci si rompevano nel pianto o nella rabbia. Un nodo ci strozzava la gola e ci univa nel grigio di quel mezzogiorno.

domenica 19 giugno 2011

IN PANCHINA

Passo all’edicola, prendo il giornale, entro nei giardinetti, mi siedo sulla prima panchina al sole per sfogliare il quotidiano. Arriva un africano e mi si siede vicino: mi scosto per fargli posto ma anche per mettere una certa distanza fra lui e me. Emette un monosillabo incomprensibile, forse un sintetico cenno saluto, forse un mal trattenuto mugugno di disappunto. Guardo sottecchi le sue gambe lunghissime: calzoni sporchi, orli sfilacciati, sandali di plastica, piedi lerci, calcagni coriacei.

Si sente un afrore forte di sudore e di luridume stagionato. Continuo a leggere il giornale e spero che la sua sosta sia breve: il fastidio è forte, ma so che non riuscirò ad abbandonare la panchina prima che lui se ne vada. Mi considero un empatico, credo nella solidarietà, mi colloco politicamente fra i democratici. Non posso coltivare pensieri di esclusione, sentimenti di repulsione, moti di respingimento, impulsi di separazione o di apartheid. Ma non posso nemmeno contenere il disagio, reprimere il fastidio, ignorare il senso di imbarazzo e il vago malessere che mi assale.

Per salvarmi l’anima, penso che proverei la stessa insofferenza se il mio occasionale vicino fosse un barbone alcolizzato, un bambino iperattivo e isterico, una madre petulante e iperprotettiva, un ragazzo tatuato e bracalone, un fumatore di mezzi toscani, una vecchia ciarliera.

Per salvarmi l’anima, resto seduto e continuo a sfogliare il giornale. Penso alle probabili ragioni e agli improbabili itinerari che hanno condotto noi due - lui e me, io e lui - su questa panchina, oggi, a quest’ora, in questo giardinetto, in questo quartiere di questa città, … E penso per un attimo a come si dipanerà per noi - lui e me, io e lui - il resto di questa giornata.

Per salvarmi l’anima, penso al mio malessere che genera e sviluppa riflessioni di compassione verso questi reietti che intersecano i nostri passi, visibili in quanto corpi, invisibili come persone. E penso all’insofferenza di molti miei concittadini che invece produce livore e si esprime in atteggiamenti di schifiltoso distanziamento e si traduce in prese di posizione sostanzialmente segregazioniste.

Per salvarmi l’anima, il pensiero scivola verso la politica e verso quei cialtroni che alimentano le più primitive intolleranze per avere consenso e potere; che entrano in politica ma non sanno ragionare politicamente (“polis”), che fanno dell’indifferenza un vanto, dell’insofferenza un valore, della repulsione una dottrina, del razzismo un’etica.

E mi sento superato e stanco.

E me ne sto qui accanto a questo "negro" che come me lascia trascorrere la giornata mentre l’indifferenza dilaga e il cinismo impera, i rapporti sociali sono squinternati, i partiti sono fazioni, i sindacati sono corporazioni, la giustizia è muta, sorda, cieca e paralizzata, la finanza è rapace; e il paese è governato in definitiva da chi sa assecondare le più incivili propensioni e cerca il consenso gaglioffo, da chi promuove il consumismo e promette panem et circenses, da chi ostenta le sue fortune ed chi esibisce le sue intemperanze e ammicca al popolo divertito, da chi ama gli adulatori e non ammette il dissenso, da una persona che “a vizio di lussuria fu sì rotta, che libido fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta”. (Dante Alighieri, Divina Commedia, Canto V, 55-57).

Intanto si fa sera.


martedì 26 aprile 2011

Verrà un momento

E comincio a capire che verrà un momento in cui le mie scelte si restringeranno e quindi le preclusioni si moltiplicheranno in maniera esponenziale finché arriverò a un qualche punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita in cui mi ritroverò rinchiuso e quasi incollato su un unico sentiero e il tempo mi lancerà a tutta velocità verso gli stadi di immobilismo e atrofia e decadenza finché non sprofonderò per tre volte, tante battaglie per niente, trascinato dal tempo.
David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, Roma 2010

lunedì 11 aprile 2011

Coltivare il giardino

Benissimo detto, rispondea Candido, ma intanto bisogna coltivare il giardino.

Voltaire, Candido, cap. 28.
(La frase è posta a conclusione dell'opera).


martedì 22 marzo 2011

Buttarsi dalla finestra

"... Per questo quando delle volte, per qualche motivo che poteva essere importante, ho pensato di sbattermi giù dalla finestra, e mi immaginavo di scavalcare la ringhiera alzando la gamba, in quel momento esatto mi è sempre venuto subito in mente che non ce n'era bisogno e che sarebbe stato un atto completamente inutile perché vi­vo da sempre come uno che è stato da subito, da ap­pena nato, sbattuto giù da una finestra come tutti, e pro­prio grazie a questo modo di vivere sto benissimo.
Ma tutte le volte che, per disgrazia e per stupidità, ho fatto questi discorsi a qualche mia amica, esibendo stupidamente questa mia visione del mondo assoluta­mente privata, mi è sempre stato detto che è una vi­sione del mondo da disperati, e che non si poteva ca­pire come io facessi a vivere, e io allora ho sempre det­to che:
a) non sono affatto disperato; e
b) che è verissimo che non ho speranze, ma sto be­nissimo, e anzi, il solo pensiero di dover pensare a del­le speranze mi fa venire l'ansia, perché sto bene dove sto e basta, anche quando sto male."

(Ugo Cornia, Sulla felicità a oltranza, Sellerio editore, Palermo 1999).