Passo all’edicola, prendo il giornale, entro nei giardinetti, mi siedo sulla prima panchina al sole per sfogliare il quotidiano. Arriva un africano e mi si siede vicino: mi scosto per fargli posto ma anche per mettere una certa distanza fra lui e me. Emette un monosillabo incomprensibile, forse un sintetico cenno saluto, forse un mal trattenuto mugugno di disappunto. Guardo sottecchi le sue gambe lunghissime: calzoni sporchi, orli sfilacciati, sandali di plastica, piedi lerci, calcagni coriacei.
Si sente un afrore forte di sudore e di luridume stagionato. Continuo a leggere il giornale e spero che la sua sosta sia breve: il fastidio è forte, ma so che non riuscirò ad abbandonare la panchina prima che lui se ne vada. Mi considero un empatico, credo nella solidarietà, mi colloco politicamente fra i democratici. Non posso coltivare pensieri di esclusione, sentimenti di repulsione, moti di respingimento, impulsi di separazione o di apartheid. Ma non posso nemmeno contenere il disagio, reprimere il fastidio, ignorare il senso di imbarazzo e il vago malessere che mi assale.
Per salvarmi l’anima, penso che proverei la stessa insofferenza se il mio occasionale vicino fosse un barbone alcolizzato, un bambino iperattivo e isterico, una madre petulante e iperprotettiva, un ragazzo tatuato e bracalone, un fumatore di mezzi toscani, una vecchia ciarliera.
Per salvarmi l’anima, resto seduto e continuo a sfogliare il giornale. Penso alle probabili ragioni e agli improbabili itinerari che hanno condotto noi due - lui e me, io e lui - su questa panchina, oggi, a quest’ora, in questo giardinetto, in questo quartiere di questa città, … E penso per un attimo a come si dipanerà per noi - lui e me, io e lui - il resto di questa giornata.
Per salvarmi l’anima, penso al mio malessere che genera e sviluppa riflessioni di compassione verso questi reietti che intersecano i nostri passi, visibili in quanto corpi, invisibili come persone. E penso all’insofferenza di molti miei concittadini che invece produce livore e si esprime in atteggiamenti di schifiltoso distanziamento e si traduce in prese di posizione sostanzialmente segregazioniste.
Per salvarmi l’anima, il pensiero scivola verso la politica e verso quei cialtroni che alimentano le più primitive intolleranze per avere consenso e potere; che entrano in politica ma non sanno ragionare politicamente (“polis”), che fanno dell’indifferenza un vanto, dell’insofferenza un valore, della repulsione una dottrina, del razzismo un’etica.
E mi sento superato e stanco.
E me ne sto qui accanto a questo "negro" che come me lascia trascorrere la giornata mentre l’indifferenza dilaga e il cinismo impera, i rapporti sociali sono squinternati, i partiti sono fazioni, i sindacati sono corporazioni, la giustizia è muta, sorda, cieca e paralizzata, la finanza è rapace; e il paese è governato in definitiva da chi sa assecondare le più incivili propensioni e cerca il consenso gaglioffo, da chi promuove il consumismo e promette panem et circenses, da chi ostenta le sue fortune ed chi esibisce le sue intemperanze e ammicca al popolo divertito, da chi ama gli adulatori e non ammette il dissenso, da una persona che “a vizio di lussuria fu sì rotta, che libido fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta”. (Dante Alighieri, Divina Commedia, Canto V, 55-57).
Intanto si fa sera.
Quincas, con una scelta anarchica e libertaria, ha abbandonato il perbenismo di una famiglia piccolo-borghese per immergersi nella autenticità della vita della suburra di Bahia, fra ubriachi e prostitute. Ora, da morto, corre il rischio di essere recuperato dagli ipocriti parenti, restituito al grigio mondo civile e ripulito da lordure e peccati, per essere ricomposto e dignitosamente sepolto.
Viene però “salvato” da uno scombinato quartetto di amici - gli indimenticabili Negro Brillantina, Pettirosso, Piedivento e Comandante Martim - che lo riconducono nel loro e suo mondo, nelle osterie del porto e sul peschereccio di Capitan Manuel, per “rivivere” un’ultima notte di fuoco, fra solenni bevute di cachaça e scorpacciate di zuppa di razza. Il morto - coerentemente con la sua unica scelta esistenziale - decide di scomparire nel mare in tempesta, sussurrando alla sua bella Quitéria Occhigrandi: “Mi seppellisco quando voglio e all’ora che mi pare. Potete mettere via la bara per un’altra occasione. Non mi lascerò rinchiudere in un buco sottoterra”.
Può essere curioso confrontare il racconto di Amado con la novella di Pirandello “Il treno ha fischiato …” nella quale il protagonista, il computista Belluca, prende consapevolezza della sua condizione (”vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi”), ma non riesce a ribellarsi e liberarsi se non con la fantasia. ("C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava...Mentr'egli qua viveva questa vita “impossibile", tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi... c'erano gli oceani... le foreste...").