martedì 3 agosto 2010

SESSANTOTTO E DINTORNI (6): Gonrieux

Il problema delle vacanze estive del ‘67 lo risolsi iscrivendomi all’associazione internazionale dei “Soci Costruttori” che organizzava campi di lavoro in quasi tutti i paesi europei.
Mi offrirono l’opportunità di scegliere se andare a raccogliere la frutta in Baviera o in Belgio a imbiancare una chiesa. Per l’idiosincrasia che provavo nei confronti della lingua tedesca, scelsi il Belgio, pur sapendo che il lavoro del raccoglitore di frutta è più salubre e meno faticoso di quello dell’imbianchino.
Con me si era aggregato un amico ed una ragazza con la quale stavo tentando di instaurare una relazione un po’ più stabile e salda dell’amicizia.
Il viaggio fu, come lo sono tutti gli spostamenti, una esperienza preziosa: ogni dislocazione porta con sé una maturazione, una crescita; ogni spostamento comporta un allargamento delle proprie frontiere e un ampliamento dei propri orizzonti; ogni spaesamento ti sradica dalla protettiva dimensione domestica, ti decentra, ti porta a prender coscienza della tua collocazione nel vasto mondo, ti costringe ad assumere consapevolezza di non essere l’ombelico dell’universo. Il viaggio amplia i confini, snida l’anima dal localismo provinciale, libera il cervello dall’angustia dei pensieri, fa uscire il cuore dalla ristrettezza.

La nostra destinazione era Gonrieux, un paesino belga sulle Ardenne, a pochi chilometri di Carleroix, sulla strada che porta al confine con la Francia.
Le tre ragazze che facevano parte della squadra furono alloggiate in canonica, considerato che la loro occupazione era principalmente quella di preparare pranzo e cena per i venti imbianchini che lavoravano in chiesa.
Noi maschi fummo ospitati, a coppie, presso le famiglie del paese, orgogliose di poter in questo modo contribuire al restauro della chiesa.
Il paese era piccolo, contava forse non più di quattrocento abitanti, aveva una sola piazza all’incrocio di tre strade, un piccolo giardinetto con un piccolo monumento ai caduti della Grande guerra, un piccolo bazar in cui si trovava tutto quel che serviva, un piccolo municipio, un piccolo cimitero.
Di grande c’era solo la birreria nella quale tutte le sere si radunavano, immancabilmente, tutti i maschi del paese.
E di immenso c’era, purtroppo, la chiesa che dovevamo tinteggiare.
Il lavoro dell’imbianchino è fra i più faticosi del mondo: la pennellessa utilizzata per stendere la tempera dopo le prime venti pennellate diventa pesante come il piombo, il braccio si indolenzisce, la spalla si anchilosa, la schiena si spezza, la testa gira. E non è bello se la testa gira quando si è sospesi a venti metri di altezza.
Comunque, messe tutte le protezioni e prese tutte le precauzioni per la sicurezza, il ritrovarsi sotto una cupola con il pennello in mano ci dava un’euforia michelangiolesca.
Il nostro contratto stabiliva che si lavorasse sei ore al giorno da lunedì a venerdì. Ci davamo dentro otto ore al giorno invece delle sei stabilite, in modo da essere liberi ogni giovedì pomeriggio. Dopo una doccia, zaino in spalla, ci piantavamo in mezzo alla piazza, sotto il cartello stradale che indicava Paris o Bruxelles e trovavamo immediatamente il passaggio verso la destinazione scelta.
Il primo fine settimana visitai Parigi, facendo il canonico giro del turista (l’Ile con Notre-Dame e la Sainte Chappelle, i buoquinistes lungo la Senna, il Louvre, Montmartre, la tour Eiffel).
Il secondo fine settimana visitai Bruxelles della quale ricordo solo confusamente la Grand Place e, più chiaramente, l’Enfant qui pisse.
Sulla strada per Bruxelles però ho chiaro il ricordo della periferia di Charleroi con i suoi allucinanti cumuli di detriti nella zona delle miniere di carbone e l’altro cumulo, quello di Waterloo, non so se tomba delle migliaia di caduti o monumento alla sconfitta dell’Imperatore.
Il terzo fine settimana, più breve perché interrotto per il rientro a casa fissato la domenica mattina, mi dovetti accontentare di Reims, della quale ricordo la incredibile cattedrale e, lungo la strada, gli sterminati vigneti della Champagne.

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