lunedì 21 giugno 2010

SESSANTOTTO E DINTORNI (24): Le avventure di un regista

Il mio interesse per il cinema e il fatto che nella scuola si cominciasse a parlare con maggior sensibilità di educazione all’immagine, mi spinsero a iscrivermi ad una scuola di cinema. Il corso, organizzato dalla Regione Lombardia, era biennale; al termine del biennio ottenni un diploma di “Operatore audiovisuale per la didattica” e divenni coordinatore didattico del corso successivo al mio e frequentai la scuola per un altro anno.
Dal punto di vista tecnico imparai ad usare cineprese (superotto e 16 millimetri) e moviole (portatili per il superotto e professionali per il 16 mm), macchine fotografiche (ripresa, sviluppo e stampa), telecamere professionali (e anche i primi videoregistratori con telecamere portatili collegate ad un registratore a nastro, grosso come un baule, alimentato da una batteria come quelle delle automobili, pesante quanto un macigno). Bazzicai in una sala di montaggio, a Milano, e imparai a montare e sonorizzare il 16 millimetri, usando una moviola “vera”.
Dal punto di vista linguistico imparai le regole della comunicazione audiovisiva, la sceneggiatura, le sequenze, i tempi, i movimenti di macchina, le profondità di campo, le focali, il montaggio.
In concreto realizzai o collaborai alla realizzazione di diversi documentari (su mestieri scomparsi, sull’agriturismo,…)

Col regista Achille Rizzi collaborai alla realizzazione di documentari per La Scuola Editrice su alcune regioni italiane.

Con Berbenni conobbi le tecniche di produzione di documentari scientifici: ci mostrò una cinepresa che riusciva a scattare parecchie decine di fotogrammi al secondo utilizzando oltre al classico otturatore ad elica un particolare congegno rotante, a specchi; ci mostrò sequenze al rallentatore girate con quella macchina: la goccia di latte che cade sulla superficie, un proiettile che infrange una lastra di vetro, il battito di ali di un calabrone,...

Con Olmi, non Ermanno, girammo un documentario sulla Resistenza nelle valli bresciane. Il mito della Resistenza unitaria contro il fascismo cominciava in quegli anni a sgretolarsi: la lunga guerra fredda e la lotta politica che divideva in Italia i comunisti dalle altre forze politiche si riverberavano sul passato e facevano affiorare i contrasti mal repressi durante il Ventennio e in guerra. In quella occasione sentii per la prima volta raccontare in maniera più esplicita dei sordi contrasti fra le formazioni comuniste e le altre formazioni: rivalità nei reclutamenti di volontari, risse attorno alle zone di lancio di rifornimenti e armi, scontri per la ripartizione delle zone di controllo, spiate e agguati; un vecchio partigiano, deluso e rancoroso, ci raccontò anche dell’assassinio di un alto comandante da parte di una banda concorrente perpetrato ad un posto di blocco da partigiani vestiti da repubblichini (l’intervista non venne inserita nel documentario).

Con il critico Tatti Sanguineti imparai a leggere i classici del nostro cinema realista (vidi e analizzai con lui Riso amaro).

Con quel matto di Paolo Gioli imparai che la creatività si esprime anche con una scatola di scarpe, che il linguaggio audiovisivo può cercare strade anarchiche fuori dalle rotte.

La specializzazione mi servì anche sul lavoro. Fui incaricato di curare l’educazione iconica nelle scuole in cui operavo, di costruire un curricolo di educazione all’immagine, di aggiornare i colleghi, di tenere corsi di formazione in molte scuole della provincia.

Il giorno in cui scoppiò la bomba in piazza Loggia mi precipitai a prendere gli attrezzi e mi trovai sul posto prima che le ambulanze avessero finito di portar via morti e feriti.
Feci una ininterrotta ripresa sulla gente che vagava sbigottita nella piazza, sugli operai che avevano interrotto il lavoro per riunirsi sul luogo del massacro, sul lago di sangue che inondava il selciato, sui brandelli di carne incollati ai muri, sul pilastro sbrecciato dall’esplosione, sui fotografi accorsi.
Da sopra una fontana ripresi e registrai, piangendo, un gruppo di uomini che sottovoce intonarono, in mezzo a quel macello, “Fischia il vento”.
Restai nella piazza fino a quando arrivarono i pompieri per lavare con gli idranti selciato e muri, cancellando l’orrore e rimuovendo indizi utili agli investigatori.
Fui ammesso ai funerali con il pass della stampa e feci un’accurata ripresa di tutta la cerimonia in piazza e lungo il percorso fra le vie del centro, scisso fra il dovere di riprendere le autorità, i gonfaloni, il servizio d’ordine imponente, il dolore composto della gente comune e l’istinto di dare spazio alla rabbia dei giovani tenuti lontano dal percorso, ai loro pugni chiusi, alle loro bandiere rosse.

Nessun commento:

Posta un commento