martedì 8 giugno 2010

La nostra vita di Daniele Luchetti (2010)

Claudio è un buon marito innamorato, un buon padre giocherellone affettuoso, un buon muratore instancabile e competente. Fuori da questi confini costituiti da casa e cantiere non esiste altro per lui. E quando la moglie muore di parto dopo avergli dato il terzo figlio, si dissesta.
Per risarcire se stesso ed i figli concentra le sue energie sul secondo pilastro della sua vita, il lavoro, e decide di fare il salto di qualità, di diventare imprenditore, di conquistare per sé e per i figli il benessere, di costruire le condizioni economiche che gli consentano di avere tutto quello che la società dei consumi gli fa baluginare sotto gli occhi dalle finestre degli schermi al plasma e dalle vetrine del megacentro commerciale nelle rituali visite domenicali.
Ai bambini - pensa - non mancherà nulla se avranno tutto quello che desiderano.
Nella sua scalata non si pone problemi etici e remore morali, convinto di avere tutti i diritti nel pretendere un risarcimento dopo essere stato depredato; sicuro di poter concedersi qualche prepotenza dopo aver subito la più atroce e immeritata delle ingiustizie.
Ma il riscatto, le manovre dei subappalti, lo sfruttamento cinico dei clandestini, il lavoro mal fatto, … riescono meglio a chi conserva la fredda lucidità dello squalo, non a chi si smarrisce davanti ad ogni “persona” che incontra. E la fortuna, si sa, aiuta gli audaci prepotenti, non le vittime disorientate.

Luchetti ha acceso i riflettori su un piccolo set ed ha raccontato le tristi vicende di un ristretto clan di anime smarrite alla deriva, ma ha saputo (mi pare) far baluginare - fuori dagli ambienti che descrive, sopra la storia che racconta, attorno ai personaggi che crea - una spaventosa realtà nella quale annaspano tutti i fantasmi sullo schermo e nella quale anneghiamo tutti noi, in platea.
Le sventure di Claudio sono sue, ma l’acqua in cui Claudio si dibatte è “la nostra vita”.
Claudio forse si salva, non per quello che fa.
Noi, per quello che non facciamo, siamo nel guado.
Noi, spettatori impotenti - non attori - di una deriva (personale e universale, esistenziale e sociale, etica e politica) che sembra inarrestabile; spettatori paganti, che di giorno in giorno cediamo anima e dignità, rinunciamo ad alzar la testa, ci rassegniamo al quia e scontiamo la nostra consunzione; spettatori disorientati che assistiamo alla rappresentazione della nostra progressiva emarginazione e alla espulsione graduale e indolore della gestione democratica del nostro destino; spettatori reclusi che ci lasciamo soggiogare senza reagire e accettiamo il guinzaglio che ci segrega nel triangolo “casa-cantiere-supermercato”; e ci accontentiamo del panem et circenses; e seguiamo nel buio della multisala le tristi vicende di un campionario della nostra umanità senza avere l’impulso di prenderci per mano.

P.S.
La qualità tecnica del film, a questo punto, interessa meno: non saranno le disquisizioni sulle defaillances della sceneggiatura, sulle incertezze registiche o sulla gigionaggine romanesca degli attori (e sulla loro recitazione neorealista che avrebbe bisogno, fuori dai confini del Lazio, di sottotitoli), … a toglierci dalla bocca e dall’anima l’amaro di una sensazione di declino.

Nessun commento:

Posta un commento