martedì 29 giugno 2010

L'artista

Quella dell'artista non è innocenza, semmai è incompletezza, destino mozzato.
Non è capace di diventare un uomo adulto. Certo, potrà pagare le tasse, partecipare alle primarie del Pd, figliare, fare la raccolta differenziata. Ma dentro di sé, nel cantuccio più riservato e inconfessabile della sua fibra vitale, non capirà mai bene che cazzo significano tutte quelle cose. Ed è proprio in questa incomprensione radicale, in questo stare al mondo per pura convenienza e imitazione, sperando sempre che gli altri non se ne accorgano, è proprio in questa idiozia senza rimedio che si annida (come una malattia mortale, non come un privilegio) la sua capacità di visione, di allucinazione, di decostruzione del reale. Dall'Uomo del Sottosuolo al Paranoid Android dei Radiohead, la grande poesia moderna non ha fatto altro che dare forma a questa anomalia, a questo residuo inservibile dell'evoluzione umana, a questo destino inteso come scherzo del destino.

(Emanuele Trevi, I critici della critica, il manifesto, 28 gennaio 2010).

lunedì 21 giugno 2010

SESSANTOTTO E DINTORNI (24): Le avventure di un regista

Il mio interesse per il cinema e il fatto che nella scuola si cominciasse a parlare con maggior sensibilità di educazione all’immagine, mi spinsero a iscrivermi ad una scuola di cinema. Il corso, organizzato dalla Regione Lombardia, era biennale; al termine del biennio ottenni un diploma di “Operatore audiovisuale per la didattica” e divenni coordinatore didattico del corso successivo al mio e frequentai la scuola per un altro anno.
Dal punto di vista tecnico imparai ad usare cineprese (superotto e 16 millimetri) e moviole (portatili per il superotto e professionali per il 16 mm), macchine fotografiche (ripresa, sviluppo e stampa), telecamere professionali (e anche i primi videoregistratori con telecamere portatili collegate ad un registratore a nastro, grosso come un baule, alimentato da una batteria come quelle delle automobili, pesante quanto un macigno). Bazzicai in una sala di montaggio, a Milano, e imparai a montare e sonorizzare il 16 millimetri, usando una moviola “vera”.
Dal punto di vista linguistico imparai le regole della comunicazione audiovisiva, la sceneggiatura, le sequenze, i tempi, i movimenti di macchina, le profondità di campo, le focali, il montaggio.
In concreto realizzai o collaborai alla realizzazione di diversi documentari (su mestieri scomparsi, sull’agriturismo,…)

Col regista Achille Rizzi collaborai alla realizzazione di documentari per La Scuola Editrice su alcune regioni italiane.

Con Berbenni conobbi le tecniche di produzione di documentari scientifici: ci mostrò una cinepresa che riusciva a scattare parecchie decine di fotogrammi al secondo utilizzando oltre al classico otturatore ad elica un particolare congegno rotante, a specchi; ci mostrò sequenze al rallentatore girate con quella macchina: la goccia di latte che cade sulla superficie, un proiettile che infrange una lastra di vetro, il battito di ali di un calabrone,...

Con Olmi, non Ermanno, girammo un documentario sulla Resistenza nelle valli bresciane. Il mito della Resistenza unitaria contro il fascismo cominciava in quegli anni a sgretolarsi: la lunga guerra fredda e la lotta politica che divideva in Italia i comunisti dalle altre forze politiche si riverberavano sul passato e facevano affiorare i contrasti mal repressi durante il Ventennio e in guerra. In quella occasione sentii per la prima volta raccontare in maniera più esplicita dei sordi contrasti fra le formazioni comuniste e le altre formazioni: rivalità nei reclutamenti di volontari, risse attorno alle zone di lancio di rifornimenti e armi, scontri per la ripartizione delle zone di controllo, spiate e agguati; un vecchio partigiano, deluso e rancoroso, ci raccontò anche dell’assassinio di un alto comandante da parte di una banda concorrente perpetrato ad un posto di blocco da partigiani vestiti da repubblichini (l’intervista non venne inserita nel documentario).

Con il critico Tatti Sanguineti imparai a leggere i classici del nostro cinema realista (vidi e analizzai con lui Riso amaro).

Con quel matto di Paolo Gioli imparai che la creatività si esprime anche con una scatola di scarpe, che il linguaggio audiovisivo può cercare strade anarchiche fuori dalle rotte.

La specializzazione mi servì anche sul lavoro. Fui incaricato di curare l’educazione iconica nelle scuole in cui operavo, di costruire un curricolo di educazione all’immagine, di aggiornare i colleghi, di tenere corsi di formazione in molte scuole della provincia.

Il giorno in cui scoppiò la bomba in piazza Loggia mi precipitai a prendere gli attrezzi e mi trovai sul posto prima che le ambulanze avessero finito di portar via morti e feriti.
Feci una ininterrotta ripresa sulla gente che vagava sbigottita nella piazza, sugli operai che avevano interrotto il lavoro per riunirsi sul luogo del massacro, sul lago di sangue che inondava il selciato, sui brandelli di carne incollati ai muri, sul pilastro sbrecciato dall’esplosione, sui fotografi accorsi.
Da sopra una fontana ripresi e registrai, piangendo, un gruppo di uomini che sottovoce intonarono, in mezzo a quel macello, “Fischia il vento”.
Restai nella piazza fino a quando arrivarono i pompieri per lavare con gli idranti selciato e muri, cancellando l’orrore e rimuovendo indizi utili agli investigatori.
Fui ammesso ai funerali con il pass della stampa e feci un’accurata ripresa di tutta la cerimonia in piazza e lungo il percorso fra le vie del centro, scisso fra il dovere di riprendere le autorità, i gonfaloni, il servizio d’ordine imponente, il dolore composto della gente comune e l’istinto di dare spazio alla rabbia dei giovani tenuti lontano dal percorso, ai loro pugni chiusi, alle loro bandiere rosse.

domenica 20 giugno 2010

BLOG

Se hai un segreto veramente importante, confidalo alla fessura di un albero secolare, che lo conserverà per sempre.
(In the Mood for Love di Wong Kar-wai).

sabato 19 giugno 2010

In the Mood for Love di Wong Kar-wai (2000)


Hong Kong, 1962.
Un uomo e una donna (il signor Chow e la signora Su Lizhen), vicini di casa, scoprono casualmente che i rispettivi coniugi sono amanti. La voglia di sapere e capire li porta ad avvicinarsi e a studiarsi con prudente circospezione forse per quel senso di solidarietà che unisce gli esclusi o forse per indagare le proprie inadeguatezze o per capire i meccanismi della insoddisfazione e della attrazione, del rapporto inappagante e del tradimento. Dopo l’iniziale reciproca curiosità, i due si cercano con una certa assiduità; e la vaga simpatia si trasforma in un’attrazione indecisa, in un affetto reticente, in una incerta dolcezza piena di pudori, frenata dalla timidezza, dalla insicurezza, dalla confusione emotiva.
La voglia di tenerezza è forte e Chow e Su Lizhen non riescono a lasciarsi; ma nemmeno riescono ad abbandonarsi ad una relazione clandestina (come quella che lega i rispettivi coniugi insinceri) e a cedere ad un sentimento che potrebbe sembrare attizzato dalla ripicca.
Si sfiorano ma non si toccano, si intrattengono ma si contengono; non riescono a nascondere il loro insopprimibile desiderio ma lo reprimono; soffocano la loro attrazione e la occultano a tutti; giocano di nascosto a recitare la parte degli amanti ma non sanno portare fino in fondo la loro stentata finzione, troppo sensibili, delicati, emotivi per “consumare” il rapporto e cercare squallide eccitazioni clandestine.

L’idea di tenerezza nasce da una sensazione di insoddisfazione.
Il desiderio inappagato è più intenso di quello esaudito e placato.
La sublimazione ha, appunto, tratti di sublimità.
Il rimpianto è, fra i sentimenti, quello più struggente ed assoluto.
La storia d’amore più appassionata è quella che sarebbe potuta accadere.
Il tempo perduto occupa l’anima più di quello vissuto.
Un non-amore può cambiare la vita.

Il sogno, per definizione, deve rimanere irrealizzato e inconfessato; e per non infrangersi non può che restare segreto, per tutti e per sempre: può essere bisbigliato dentro la fessura di un albero nascosto nella foresta o può essere sussurrato e custodito in una crepa, poi sigillata, di un muro fra le rovine di un tempio abbandonato. Ma questo intimo sogno di un amore, noi lo abbiamo conosciuto: abbiamo colto l’inespresso, abbiamo sentito quello che il triste e gentile signor Chow e la dolce e malinconica signora Su Lizhen non si sono detti, abbiamo visto i segni invisibili che questo non amore ha lasciato sulle loro invisibili anime.
 
Splendidi dunque i silenzi, ovviamente. E dolcissima la colonna sonora (di Michael Nyman) e i brani di musica inseriti (Yò te quiero mucho, Qui sas,…).
Efficacissimi i movimenti claustrofobici della macchina da presa dentro spazi stretti, la monotonia delle inquadrature, il montaggio spezzato e incoerente (come lo sono i ricordi), gli sguardi mesti e i gesti trattenuti, la recitazione sobria e reticente, l’immagine ricorrente di un orologio che segna il tempo che scivola via, sotto la pioggia, insistente ed inutile.




martedì 8 giugno 2010

La nostra vita di Daniele Luchetti (2010)

Claudio è un buon marito innamorato, un buon padre giocherellone affettuoso, un buon muratore instancabile e competente. Fuori da questi confini costituiti da casa e cantiere non esiste altro per lui. E quando la moglie muore di parto dopo avergli dato il terzo figlio, si dissesta.
Per risarcire se stesso ed i figli concentra le sue energie sul secondo pilastro della sua vita, il lavoro, e decide di fare il salto di qualità, di diventare imprenditore, di conquistare per sé e per i figli il benessere, di costruire le condizioni economiche che gli consentano di avere tutto quello che la società dei consumi gli fa baluginare sotto gli occhi dalle finestre degli schermi al plasma e dalle vetrine del megacentro commerciale nelle rituali visite domenicali.
Ai bambini - pensa - non mancherà nulla se avranno tutto quello che desiderano.
Nella sua scalata non si pone problemi etici e remore morali, convinto di avere tutti i diritti nel pretendere un risarcimento dopo essere stato depredato; sicuro di poter concedersi qualche prepotenza dopo aver subito la più atroce e immeritata delle ingiustizie.
Ma il riscatto, le manovre dei subappalti, lo sfruttamento cinico dei clandestini, il lavoro mal fatto, … riescono meglio a chi conserva la fredda lucidità dello squalo, non a chi si smarrisce davanti ad ogni “persona” che incontra. E la fortuna, si sa, aiuta gli audaci prepotenti, non le vittime disorientate.

Luchetti ha acceso i riflettori su un piccolo set ed ha raccontato le tristi vicende di un ristretto clan di anime smarrite alla deriva, ma ha saputo (mi pare) far baluginare - fuori dagli ambienti che descrive, sopra la storia che racconta, attorno ai personaggi che crea - una spaventosa realtà nella quale annaspano tutti i fantasmi sullo schermo e nella quale anneghiamo tutti noi, in platea.
Le sventure di Claudio sono sue, ma l’acqua in cui Claudio si dibatte è “la nostra vita”.
Claudio forse si salva, non per quello che fa.
Noi, per quello che non facciamo, siamo nel guado.
Noi, spettatori impotenti - non attori - di una deriva (personale e universale, esistenziale e sociale, etica e politica) che sembra inarrestabile; spettatori paganti, che di giorno in giorno cediamo anima e dignità, rinunciamo ad alzar la testa, ci rassegniamo al quia e scontiamo la nostra consunzione; spettatori disorientati che assistiamo alla rappresentazione della nostra progressiva emarginazione e alla espulsione graduale e indolore della gestione democratica del nostro destino; spettatori reclusi che ci lasciamo soggiogare senza reagire e accettiamo il guinzaglio che ci segrega nel triangolo “casa-cantiere-supermercato”; e ci accontentiamo del panem et circenses; e seguiamo nel buio della multisala le tristi vicende di un campionario della nostra umanità senza avere l’impulso di prenderci per mano.

P.S.
La qualità tecnica del film, a questo punto, interessa meno: non saranno le disquisizioni sulle defaillances della sceneggiatura, sulle incertezze registiche o sulla gigionaggine romanesca degli attori (e sulla loro recitazione neorealista che avrebbe bisogno, fuori dai confini del Lazio, di sottotitoli), … a toglierci dalla bocca e dall’anima l’amaro di una sensazione di declino.

lunedì 7 giugno 2010

Draquila, L'Italia che trema di Sabina Guzzanti (2010)

Il terremoti che hanno colpito L’Aquila nel passato hanno visto all’opera i professionisti della fede mobilitatisi per ammonire e redimere i peccatori, consolare gli afflitti, vestire gli ignudi, dar da bere agli assetati e seppellire i morti. I predicatori medioevali del 1303 e del 1349, così come la moltitudine di preti e suore inviati da papa Clemente XI nel 1703, portarono alla popolazione decimata la carità solidale, trasmisero parole di speranza e contribuirono non solo alla rinascita della città ma anche al rinnovamento della fede, testimoniato dalla presenza di chiese e santuari, conventi e cappelle e dal documentato diffondersi di culti, dall’intensificarsi di novene e processioni, dal rifiorente commercio di reliquie.
Il terremoto del 2009 ha visto le innumerevoli apparizioni (in loco e in video) dell’unto del Signore, Santo Fondatore del Partito dell’Amore, l’Omino di Burro, seguito a ruota da un codazzo di parassiti del sottobosco politico, da un corteo di corruttori a braccetto coi corrotti, da processioni di strateghi del decreto urgente e della normativa straordinaria (“poteri speciali ad un uomo speciale”), da squadre di professionisti dell’appalto e del subappalto con il seguito di ballerine e nani, pervertitori e pervertiti, geometri indecenti e consolidatori del consenso, liberi imprenditori e incensatori.
Quello che per la popolazione aquilana è stata una tragica sciagura, si è rivelato un felice quanto inatteso colpo di fortuna per questa orda di vampiri (Draquila = Dracula + Aquila) composta da politici in declino e da speculatori mai sazi.
Sabina Guzzanti, la comica, gira un film dell’orrore. Con la sua traballante cinepresa, i montaggi approssimativi, le immagini sfuocate e disomogenee, le passeggiate notturne fra le macerie, le manovre da giornalista d’assalto, … contrappone i fatti alle parole; racconta la tragedia di una splendida e sfortunata città che ha subito un terremoto e si è vista “castigare” dai quelli che le hanno promesso la rinascita. Lo fa con passione, con impietosita partecipazione. Facendo parlare i fatti e defilandosi con pudore, visto che l’impudicizia delle cose che racconta basta e avanza.
Lo sconforto è grande, se si pensa che quelli che ballano sulle macerie de L’Aquila sono gli stessi che da qualche anno danzano sull’Italia in rovina. Lo sconforto è grande nel vedere che a resistere a questa orda indecente resta solo il dignitosissimo sdentato professor Colapietro, eremita in una città fantasma, fra cumuli di detriti e muri puntellati, solo con i suoi gatti e i suoi libri.

domenica 6 giugno 2010

Rigurgiti

Non serve cercare appigli se tutto precipita con te.
Quello che sembra disorientamento esistenziale è in realtà una frantumazione metafisica; la transizione è un transito; il declino è un agonia.
L'amorfa indifferenza nasce dalla netta percezione che è calato un diaframma; l'inettitudine sociale, la rassegnazione, il senso di estraneità sono la reazione incontrollabile ed inevitabile alla espulsione.
L'utopia della palingenesi varrà per altri: quella a cui assistiamo è una degenesi.
Se verranno altri tempi, come si dice, saranno altri tempi; cioè tempi di altri.