mercoledì 12 maggio 2010

Agora di Alejandro Amenábar (2009)

A prima vista il film pare un “peplum” degli anno ’60: per la splendida protagonista, innanzitutto; e poi per tutto il contorno di senatori, sacerdoti, schiavi, legionari, mercanti, comparse varie. La scenografia è … faraonica, l’ambientazione ricorda i film mitologici; le piazze, i palazzi, il tempio, la biblioteca rimandano ad Antonio e Cleopatra; i costumi sfarzosi e le acconciature sono le stesse Poppea o Spartaco; e ancora i movimenti di folla, il popolo … Pare di assistere ai mitici film con Ursus o Ercole o Maciste. E dal mare ti aspetti che giungano gli Argonauti o il disorientato Ulisse.
La trama invece, sia pure con qualche ovvia libertà narrativa, è congegnata attorno a fatti storici ed è sorretta da una ricerca sufficientemente seria e documentata; i luoghi sono ricostruiti con una certa fedeltà; i personaggi sono ricalcati su persone realmente esistite; le dispute sono ricavate da testi di autori del tempo.
La vicenda si svolge verso la fine del IV secolo dopo Cristo ad Alessandria, la città che col suo Faro e la sua Biblioteca illumina, in tutti i sensi, il Mediterraneo. Il faro, costruito nel 280 a.C. su un isolotto che si chiama Pharos, è quello che dà il nome a tutti i fari: considerato una delle sette meraviglie del mondo, è alto circa 130 metri (è la costruzione più elevata e imponente dell’antichità) e resterà in funzione fino al 641.
La biblioteca è la più grande e la più ricca del mondo antico (alcuni storici, nel riferire degli incendi che l’hanno più volte devastata, parlano di 40.000 volumi, altri di 700.000); per secoli è il principale punto di riferimento della culturale classica, greca ed ellenistica; viene distrutta più volte (da Cesare nel 48 a. C., da Aureliano nel 270 d.c., da Teodosio nel 390) e più volte ricostituita fino alla conquista Araba del 642; è da sempre una istituzione - quasi come una sede universitaria - frequentata di filosofi, politici, astronomi, matematici, scienziati di varie discipline e di vari credi religiosi che studiano, discutono, si confrontano, insegnano.
Fra gli scienziati presenti alla fine del IV secolo spicca, non solo per la sua bellezza, Ipazia, matematica, astronoma, filosofa, ricercatrice, insegnante. Suo padre e suo maestro è Teone, custode e responsabile della biblioteca. Fra i suoi allievi vi è Oreste (futuro prefetto della Città), Sinesio di Cirene (poi filosofo neoplatonico, scrittore, vescovo di Tolemaide). Fra i suoi schiavi Davos, incantato di lei e dei suoi insegnamenti, incatenato a lei da un amore tormentato e confuso.

In città convivono pagani, ebrei e i cristiani. Questi ultimi, perseguitati e martirizzati fino a pochi decenni prima, sono in forte espansione. Li guida il vescovo Cirillo (lo stesso che nel concilio di Efeso del 431 si opporrà ai nestoriani), succeduto sulla cattedra episcopale allo zio Teofilo.
Cirillo - sotto la protezione non disinteressata dell’imperatore - ambisce al controllo totale della città e non solo desidera fare proseliti e convertire, come è nella sua missione, ma vuole imporre la sua religione e “cristianizzare” la vita, la cultura, l’etica, la politica. Per affrontare le tensioni che crescono e risolvere i problemi di ordine pubblico, assume il controllo della città, trasforma le sinagoghe e i templi pagani in chiese, vieta altri culti imponendosi sul prefetto che tenta con scarso successo di garantire la libertà religiosa. Il braccio armato del vescovo è costituito da una vera e propria milizia di fanatici monaci chiamati parabalani (dei proto-talebani!) che - guidati dall’invasato Ammonio - fanno proselitismo distribuendo pane ai poveri e dando la libertà agli schiavi, ma - nutrendosi di slogan e muovendosi in massa - sbaragliano i nobili pagani recalcitranti, inducono alla conversione gli indecisi, perseguitano gli eretici, bruciano ed esiliano gli ebrei promuovendo il primo pogrom della storia (Piangete per loro, gli assassini di Cristo, perché saranno perseguitati in eterno).
A Cirillo, futuro santo, si oppone la “laica” Ipazia : dedita totalmente alle sue ricerche chiede la tolleranza, insegna la convivenza, sostiene e pratica il dialogo in nome della scienza (Sono più le cose che ci uniscono, di quelle che ci dividono, siamo tutti fratelli,…); fa appello alla filosofia, ha amore per la conoscenza, crede nel dubbio (Voi non mettete in discussione ciò in cui credete - dice ai cristiani); non vuole essere coinvolta nella lotta fra cristiani e non cristiani (forse anche perché ne comprende con troppa lucidità le ragioni tutte politiche); non accetta che la sua biblioteca venga profanata da torme di faziosi e fondamentalisti (orde cristiane, un ossimoro!) e, quando la biblioteca brucia, non pensa a sé ma ai papiri e alle pergamene da salvare.
Ipazia, la bella Ipazia, ha un’altra colpa, oltre a quella della “laicità”: è donna. Una donna che - senza arroganza - sa insegnare agli uomini e gode del loro rispetto, della deferenza del prefetto, della considerazione di vescovi, dell’affetto di molti allievi. Una donna che, con pacata e ferma ostinazione, osa resistere e persiste nelle sue convinzioni opponendosi con coraggio al vescovo che ha piegato tutti con determinazione feroce (e che contro di lei, per sancire la sua inferiorità, invoca l’autorità di S. Paolo citando la Lettera ai Corinzi 11, 3-10, dove si afferma che l'uomo non ebbe origine dalla donna, ma fu la donna a esser tratta dall'uomo; né fu creato l'uomo per la donna, bensì la donna per l'uomo).
Nel marzo del 415, Ipazia viene fermata dai parabalani, condotta al tempio, denudata e uccisa.
Nel film la morte avviene per strangolamento dalle mani pietose del suo schiavo Davos. La storia racconta che - come avveniva per molte martiri cristiane - le furono cavati gli occhi e fu lapidata, straziata con gusci di conchiglia, smembrata e fatta a pezzi, bruciata su un cumulo di immondizia. Il film su questi scempi è reticente, forse per non concedere troppo ai gusti sadici imperanti, forse per farsi perdonare qualche libertà storica, alcune alterazioni ed enfasi, alcune incongruenze e forzature…

Lo scopo del regista d'altronde non è quello di ristabilire verità storiche o di accusare la chiesa cristiana o le religioni in generale, ma è quello di denunciare la violenza e l’estremismo, l’intolleranza e il dogmatismo. Come Ipazia, Amenabar non si schiera (di questo non sembrano accorgersene molti critici “difensori della religione”). Il regista descrive con accorata sofferenza quello che Ipazia, con accorata sofferenza, vede: l’ottusa ferocia di tre estremismi radicali, la cecità degli integralismi, la tragica impotenza dei moderati, l’inutilità della indipendenza del pensiero.
Amennabar, come Ipazia, condanna, con accorata sofferenza e angosciosa partecipazione, chi con furia iconoclasta brucia i libri (… Bebel-platz, … Fahrenheit 451,…), chi vuole imporre una fede, chi usa la religione per conquistare il potere o conservarlo e ne fa instrumentum regni, chi si arroga il diritto di detenere la Verità, chi alimenta l’intolleranza, chi pretende di imporre un culto ufficiale, chi vuole dettare regole civili ed etiche, chi catechizza e impone comandamenti, chi issa bandiere con simboli religiosi.

Splendide, grandiose, estremamente significative ed assolutamente paradigmatiche, le inquadrature dall’alto, i magnifici movimenti, le visioni-evasioni stellari della macchina da presa che, come lo sguardo di Ipazia, si allontana nell’incommensurabile vastità dell’universo imperturbato, si perde nel tragico silenzio siderale dello spazio, in muta sintonia con l’armonia delle sfere celesti, distaccandosi - impotente - da questa misera terra chiassosa, straziata, intrisa di sangue e abitata da insetti feroci e ottusi.

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