mercoledì 20 gennaio 2010

1960-1963: MICROCOSMI (3) – La scrittura

Sui banchi nacque il gusto per la scrittura.
Tenevo un diario quasi quotidiano (rigorosamente segreto): uno zibaldone pieno di dissonanti sfoghi, considerazioni, idee, spunti, brani, pezzi poetici, bozze, lettere non spedite, riflessioni, frammenti, pensieri, meditazioni, parodie, … Riempivo quaderni interi di citazioni memorabili, proverbi, aforismi, recensioni, considerazioni di critica letteraria, novelle scopiazzate, racconti umoristici, poesie petrarcheggianti o leopardiane
Le uniche occasioni per farmi leggere erano quelle canoniche, date dai temi ; gli unici miei lettori erano i professori. Incoraggiato dalle lusinghiere valutazioni assegnate ai miei componimenti di letteratura, cominciai a sbilanciarmi anche su altri temi. Se i titoli proposti non erano abbastanza stuzzicanti, ricorrevo a piccole forzature. Il professore annotava: “fuori tema, ma la lettura piacevole, la fantasia dimostrata, la correttezza ortografica e sintattica, rendono lo svolgimento più che sufficiente” e mi dava un otto.
Dovendo raccontare di “Una situazione comica” mi inventai una novella in cui raccontavo la veglia funebre per un vecchio ubriacone: il cadavere, ritrovato stecchito lungo una strada di campagna, era seduto e non era stato possibile raddrizzarlo più di tanto: nella bara avevano messo dei pesi sotto le ascelle per evitare che il morto facesse capolino oltre l’orlo della bara; la vecchia figlia, prima che si sigillasse la cassa, davanti al prete, ai parenti, agli amici, alle beghine e agli addetti alle pompe funebri, si era avvicinata per dare l’ultimo bacio al povero vecchio e aveva inavvertitamente appoggiato la mano sulle ginocchia del padre: il corpo piegato - facendo leva - si era sollevato dalla parte della testa e …
In un’altra occasione, invitato a descrivere delle “Atmosfere d’autunno”, decisi di evitare le solite descrizioni “en plein air” degli alberi spogli, delle foglie ingiallite e delle nuvole grigie. Raccontai del tempo trascorso in un salottino d’attesa di un dentista: ero solo, il tempo passava, faceva buio, nessuno accendeva la luce, bagliori dalla strada, ombre sui muri, il dentista probabilmente si era dimenticato di me, rumori di passi nelle altre stanze, mobili smossi, sentore di legno antico e di muffe, scricchiolii, tremolio di vetri, frusciare di tende, colpi di tosse, odori di minestra, rintocchi attutiti di una pendola, …

Fra le prime poesie ne ricordo una molto dannunziana.
Iniziava così:

Piove.
Una gocciola
cade leggera,
si ferma sui vetri,
tentenna,
scivola e va.
Un’altra più grave
di sopra
tentenna,
s’arrotola,
scende,
investe
la goccia leggera,
l’ingoia,
s’ingrossa,
s’arresta…

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