sabato 2 gennaio 2010

1960-1963 : MICROCOSMI (1) – La scuola

La scuola occupava metà della giornata; lo studio, forzato, l’altra metà.
A distanza mi pare di capire che lo scopo del “sistema” era quello accrescere le conoscenze e “infondere” il sapere, non quello di sviluppare competenze e ampliare la “cultura”.
Prevaleva il nozionismo sfrenato, la ripetizione di regole grammaticali e sintattiche, di declinazioni e coniugazioni, di verbi regolari e irregolari, di date e dinastie, di guerre e trattati, di diete e congressi, di spedizioni e invasioni, incoronazioni e decapitazioni. Si imparavano a macchinetta tutti i nomi degli architetti, degli scultori e dei pittori con l’elenco cronologico delle loro opere. Si snocciolavano a richiesta tutti i teoremi di tutti i matematici da Euclide in poi, tutte le leggi di fisica, tutte le formule chimiche, tutta la nomenclatura delle scienze biologiche, botaniche, anatomiche.
Superando la nausea derivante dalla condizione coatta e per dare un senso a tutto quel tempo, cominciai ad accorgermi che anche la storia della letteratura, pur facendo parte del “loro” programma, poteva dirmi qualcosa.
Scoprii che Dante era potente e immenso; che Petrarca in certi momenti si rivelava tenero e dolcissimo; che Boccaccio aveva pagine esilaranti ma sapeva anche essere inverosimilmente amaro o feroce; che Tasso era struggente e quasi femmineo; che Alfieri, dopo la faticosa lettura delle prime quattro tragedie, ti catturava in un crescendo elettrizzante con le altre quindici e ti scaldava fini all’esaltazione. Perfino Foscolo e Monti potevano agguantarmi e trascinarmi in un mondo separato; e Manzoni, il bigotto, aveva guizzi di arguzia sorprendenti; e Verga, raccontando la vita che si sgroviglia fuori dagli impermeabili confini del mio piccolo mondo, svelava universi sorprendenti e dolori cosmici.
Cominciai a capire che dietro il frastuono delle guerre e sotto la crosta della storia narrata scorreva una storia vera, fatta di sangue e lacrime, di sudore e ribellione, di rassegnazione mai contenibile, di rabbiosa voglia di libertà, fraternità, uguaglianza.
Cominciai a capire che gli artisti, anche quelli che lavoravano al soldo dei potenti e assecondavano i desideri del committente, riuscivano a dire qualcosa di vigorosamente reale, sapevano essere ferocemente eversivi, mettevano nelle loro opere dei segnali che - decifrati - davano senso ai capolavori e dicevano di sé, dei coevi e della loro epoca qualcosa di autentico, qualcosa che gli annali ufficiali non sapevano dirci. Scoprii che Caravaggio nei nitidi quadri di soggetto sacro parlava di cose profane e della sua disperazione; che Bosch, celebrando le virtù e condannando i vizi, ci raccontava le sue ossessioni ed i tormenti; che Michelangelo dava la più potente rappresentazione di sé negli abbozzati Prigioni o nella dissestata Pietà Rondinini, non nella lucida Pietà di Roma o nel David inverecondo (a cui potevamo, grazie alla incensurabile Arte, sbirciare il piselletto e utilizzarlo come confortante parametro di raffronto, l’unico per noi adolescenti pudichi e repressi).

Gli insegnanti tentavano di rendere afoni i nostri scrittori, ma le potenti pagine della saporosa antologia avevano il sopravvento sulla loro soporosa esegesi. Pareva quasi che volessero evitare che coltivassimo delle curiosità e ci formassimo uno spirito critico, che ci avrebbe portato a rifiutare l’obbedienza.
Molti miei compagni - conformisti - studiavano la storia della letteratura senza leggere un brano (“quel giorno più non vi leggemmo avante”!) o studiavano sui vietati Bignami; alcuni - conformisti e pigri - si accontentavano di leggere gli appunti delle lezioni e apprendevano tutto quel che serviva per passare dignitosamente le interrogazioni. C’erano perfino alcuni insegnanti che, per insegnare la sintesi, “dettavano” gli appunti che si presentavano come piatti unici, confezionati e precotti: la mediocre “recita” di queste sintesi evitava superflue fatiche e inutili rischi, e garantiva una sufficienza.
Io leggevo, “per diletto” innanzitutto, ma anche per anticonformismo; ero alla puntigliosa ricerca di elementi per verificare ed eventualmente smentire gli storici, di ragioni per smascherare i bigini, di appigli per contraddire i professori.
Nei miei temi di letteratura - mai meno di venti pagine - scioglievo i controlli nei quali ero costretto durante le interrogazioni e mi scatenavo, scardinando le piccole certezze dei miei professori - non tutti stupidi - basate su canoni fissi, costruite su tracce tramandate di anno in anno, congegnate su riassunti schematici, composte di nozioni fitte e condite con aneddoti curiosi.
Per puro spirito di contraddizione presentai una volta un tema di cinquanta pagine nel quale dimostravo - con puntigliose e precise citazioni testuali - che Ariosto, sotto la vena comica, nascondeva una disperata tristezza più devastante della compiaciuta malinconia del Tasso.
Era la lotta dell’autentico contro l’inautentico. Una difficile zuffa, fatta di opposizioni e attrazioni, di ansimi e aneliti, di dissensi e desideri, considerato che i miei “viaggi” partivano tutti e comunque dalle sollecitazioni che mi venivano offerte su quei banchi.

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