giovedì 3 dicembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (20): Via da Amsterdam

... Non me la sentivo di proseguire quel viaggio: la meta vagheggiata, Amsterdam, non mi attirava più. A dire la verità, non mi aveva mai attirato. Risalendo il Reno ci sarei arrivato inevitabilmente: per questo tenevo un cartello di John con scritto “AMSTERDAM”. La città olandese era la meta naturale di chi percorreva l’autostrada verso nord, di chi seguiva la corrente del fiume e di chi assecondava il flusso di tutti quegli scombinati che vi confluivano in cerca di “sesso, droga e rockenroll”. Amsterdam era come La Mecca: ogni anticonformista doveva farci un pellegrinaggio nella vita prima di essere ammesso nella comunità dei beat. Tutti i cappelloni del mondo erano lì, come mosche sulla merda, a guardare i battelli in transito sui canali, a cercare fumo, ad affollare i giardinetti e a percorrere le strade del quartiere a luci rosse.
Io, dopo la storia di Praga, non avevo voglia di “gettarmi in quel gomitolo di strade”. E poi il mio istinto mi diceva che seguire il flusso degli anticonformisti era una forma di conformismo inconsapevole e scemo. Era come non tollerare l’intolleranza, elevare a religione l’ateismo, proclamare dogma l’antidogmatismo.
Avevo sognato di arrivare ad Amsterdam solo per una ragione: farmi una scorpacciata di musei e poi tornare per raccontare agli amici la plasticità dei Van Eyck più che quella delle turiste disinibite; per descrivere le inquietanti visioni oniriche di Bosch più che quelle prodotte dalla canapa; per decantare le rotondità dei quadri di Rubens e Van Dyck e non quelle delle puttane in vetrina; per esaltare i personaggi ed i paesaggi ritratti da Van Gogh, più pastosi, densi e cupi delle notti d’Olanda.
Decisi di abbandonare la Germania, di puntare a sud-ovest, lungo la Mosella - risalendo la corrente - verso il Lussemburgo.
Ma il viaggio aveva perso senso. I percorsi erano tragitti; le mete diventavano soste; gli incontri non lasciavano segni. Mi sedevo sugli scalini di una chiesa, sulle panchine dei giardini, sulle sedie fuori da un bar, sul bordo di una fontana e osservavo la gente; sostavo davanti a un museo, ai margini di una piazza, sotto un portico, alla fermata degli autobus, sopra un ponte e guardavo scorrere la vita. Ascoltavo le voci senza tentare di capire: mi piaceva immaginare che dicessero cose strepitose, ma sapevo che si scambiavano banalità, si lamentavano del tempo, del governo o del mal di piedi; mi piaceva immaginare che corressero a fare chissà cosa, ma sapevo che erano in ritardo per la cena, correvano dal dentista, scappavano dal lavoro. Guardavo i miei coetanei e immaginavo tutti più felici di me, ma sapevo che ce n’era di più scontenti, di più stupidi, di più squallidi, di più soli. Guardavo le ragazze e ne vedevo di carine ma anche di ciospe, di scialbe, di furuncolose, di inavvicinabili. I vecchi erano vecchi, i poliziotti erano poliziotti, i bottegai erano bottegai. I paesaggi erano interessanti, ma paragonabili a quelli del Veneto, dell’Umbria, dell’Emilia. Il traffico era fastidioso come ovunque, i grossi cartelloni pubblicitari erano invadenti e stupidi e con slogan scontati.
A tappe regolari arrivai in Francia: mi parve che cambiassero solo gli odori. Attraversai la Lorena, puntai su Nancy per arrivare a Lione. Rientrai in Italia attraverso il traforo del Monte Bianco. A Chamonix mi parve, come un viandante, di essere in vista della strada di casa.

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