mercoledì 30 dicembre 2009

RECENSIONE (5) : Venti, trenta, quaranta

Il nuovo romanzo di R.A. – intitolato Venti, trenta, quaranta racconta, in estrema sintesi, di un triangolo.
Il protagonista maschile è un confuso trentenne (Mario) che si innamora pigramente di una dolcissima quarantenne (Marcella) e vive con lei una storia di tenerissimi affetti, appagante e tranquilla, finché non si profila all’orizzonte – irruente e disinibita, sfrontata e fragile – una ventenne (Marzia), che lo trascina in una faticosa ed strampalata avventura.
Mario pencola indeciso fra le due, anche se – almeno dal punto di vista logistico – non incontra problemi a giostrarsi fra la paziente Marcella, che non sa dubitare di lui e lo attende senza smanie, dolce e accogliente, e la irrequieta Marzia, che lo fagocita per delle mezze frenetiche giornate, gli sconvolge le notti, scompare e riappare puerilmente assente o invadente, possessiva o inafferrabile, atroce o leziosa.
Mario sente di non poter fare a meno del pacato affetto di Marcella, ma non sa immaginare la sua vita senza la disinvolta allegria di Marzia. Soffre di questa sua condizione di ambiguità, ma non vuole decidersi: gli pare di non essere in grado di troncare nessuna delle due relazioni, sia per quel che riceve, sia per quel che sente di poter dare. Non vuole mettere in crisi la solidità del suo rapporto con la donna e privarla della sua rassicurante presenza; e nello stesso tempo non vuole respingere la ragazza e mandare in crisi il suo precario equilibrio aggiungendo un ulteriore elemento di instabilità emotiva alla sua arruffata esistenza.
La storia ha un improvviso scarto quando Mario scopre casualmente che Marzia è la figlia di Marcella. Con mille cautele, senza smascherarsi, tenta di sapere di più, di indagare, di capire. Ma le due donne sono elusive, vaghe, reticenti. Mario capisce solo che – per qualche ragione oscura e dolorosa – si sono rabbiosamente separate, ... che il rancore che le ha allontanate – ormai da cinque anni – non consente loro di tentare un riavvicinamento, ... che considerano definitivamente sciolto il loro legame, ... che ognuna delle due ha dissezionato l’altra dalla propria esistenza.
Questa fissione, che potrebbe consentire in un certo modo a Mario di vivere due vite parallele, diventa invece una ossessione insostenibile, un tarlo, un tormento: la disperazione delle sue donne, che prima aleggiava quasi impercepibile, ore affiora da ogni gesto, trasuda dagli occhi e si espande, lo avvolge e lo intride. Mario non può restare, ma nemmeno sa svincolarsi. Capisce che Marcella e Marzia non possono essere parte della sua vita, ma che lui ormai è parte della vita loro. O forse, al contrario, percepisce che lui non sarà mai parte della loro vita e resterà un elemento separato da Marzia e Marcella che ormai sono la sua pelle e la sua anima.
Solo un deus ex machina inatteso e imponderabile potrebbe forse intervenire a sciogliere la situazione.

martedì 29 dicembre 2009

Profugo

Ritorno come un profugo fra i campi
delle mie terre basse.
La strada è senza solchi.
Un superstite gelso si contorce
ingobbito
sul putrido fosso
intasato da incongrue plastiche colorate.
Sbircio da un portone sgangherato
un’aia immensa
deserta di cani e di bambini:
nel centro un carretto
si arrende sconsolato,
ritte le stanghe al cielo.

lunedì 28 dicembre 2009

Lista (realismo)

La lista infinita dei sogni
stilata a vent’anni
si conserva ancora intatta nella mente.
Ogni tanto però
traccio un segno leggero di spunta
accanto alle cose
che ormai sicuramente non farò,
ai nomi dei paesi
che non visiterò,
ai desideri sgonfi,
alle voglie stanche,
alle sbiadite fantasie.

sabato 26 dicembre 2009

Traduzioni

Odio ed amo.
Pare incredibile.
Se tu mi chiedi
com’è possibile,
io ti rispondo
che non lo so
che questo sento
e in pene sto.

venerdì 25 dicembre 2009

martedì 22 dicembre 2009

Divieto di accesso

Da qui
sento flebili suoni
di miele.
Ma ho sparso intorno segnali
con divieti di transito e di accesso.

SESSANTOTTO E DINTORNI (22): Professori

Fra gli insegnanti alla Cattolica ne ricordo alcuni per ragioni di stima o di affetto, altri - come è giusto - per l’antipatia che suscitavano con le loro ossessioni e con la cavillosità con cui ci inquisivano agli esami; altri ancora sono rimasti nelle pieghe della memoria per alcuni vezzi o tic che ce li facevano sembrare un po’ fuori di testa.
Ricordo Giuseppe Nangeroni, professore di geografia: un simpaticissimo vecchietto che ogni tanto spariva dalla circolazione per mesi e, al suo ritorno, si presentava in aula allegro e abbronzato e ci raccontava delle sue esplorazioni sui vulcani in Africa.
Ricordo il professor Severino, severo anche di fatto, austero proprio come si addice ad un filosofo, autorevole nonostante la giovane età, reso più autorevole ai nostri occhi dalla sua espulsione dalla Cattolica - equivalente al rogo per gli eretici - dovuta a certe incomprensibili posizioni da lui assunte su non so quali aspetti del suo intricato pensare dogmaticamente incompatibili con la dottrina della Chiesa.
Ricordo ancora Giovanni Bazoli, professore di diritto, del quale non frequentai le lezioni, che - oltre che ostiche e noiose - erano da molti di noi ritenute inutili ai fini della formazione umanistica. Mi sembra di ricordare però di aver sostenuto con lui un esame, facoltativo, e di aver preso un bel voto. Nell’82 gli affidarono il compito di rifondare il Banco Ambrosiano, dopo il fallimento accompagnato da accuse di collisione con la mafia e con la finanza vaticana e dopo la morte per impiccagione di Calvi. Negli anni successivi guidò la sua piccola banca alla fusione altre banche - la cattolica del Veneto, la Carialo, la Commerciale Italiana, il San Paolo di Torino - e ora guida uno dei più grandi gruppi bancari italiani.
Ricordo Calvi, un professore di psicologia, che ci propose come esperienza propedeutica al suo corso di passare una settimana in un manicomio. Fu un’esperienza folgorante. L’edificio era un incrocio fra la caserma ed il convento: all’ingresso c’era un posto di guardia, e poi chiostri assolati di una luce irreale, giardinetti desolati, corridoi vasti e spogli, cancelli e porte, serrature e sbarre, androni alti e squallidi, scale consunte, latrine maleodoranti di un misto di piscio e disinfettante, stanzette squallide, letti arrugginiti, materassi logori, lenzuola grezze, coperte militari, tavolini dalla vernice scrostata ingombri di piccoli oggetti inutili, …
Ricordo soprattutto le “interviste” ai matti, le chiacchierate sconclusionate, l’allucinata lucidità di alcuni, l’allegra alienazione di altri, il disperato isolamento, gli sguardi acquosi, i capelli irti, i vestiti sghembi, le bocche sdentate.
Amalia viveva nelle cucine dove la tenevano occupata in mille inutili incombenze: pesava centoventi chili e beveva acqua a litri perché - spiegava con estrema tranquillità - in pancia teneva un presepio intero, e doveva dar da bere a tutti: a greggi e pastori, ai magi, al bue e all’asinello, ai maiali, alle galline, al calzolaio, al mugnaio, all’arrotino, a Maria e Giuseppe, e anche ad Erode e ai suoi soldati.
L’ingegnere mi spiegava che degli esseri di altri pianeti stavano conquistando la terra, ma non lo facevano negli stessi modi grezzi dei Romani o di Gengis Kan: si infiltravano in noi lentamente, prendendo possesso in modo impercettibile del nostro cervello, espandendosi progressivamente nelle nostre cellule, imbevendo la nostra coscienza, saturandoci l’anima. Nessuno poteva avvertire questa occupazione graduale, questa invasione progressiva. Solo lui, l’ingegnere - che per un trauma cranico subìto in un incidente stradale aveva perso la coscienza per tre settimane - aveva percepito il cambiamento al momento del risveglio. E ora, per l’acuita sensibilità, sentiva crescere dentro il nemico: dava l’allarme ma nessuno gli badava. Tentava di convincere gli inservienti e quelli ridevano. I suoi parenti gli davano ragione, ma lo facevano per non contrariarlo. Un infermiere, interamente posseduto, tentava di ridurlo al silenzio con sedativi. Il mondo era perso. Lui avrebbe resistito ancora per poco. A me affidava il compito di diffondere l’allarme, di salvare il mondo.

Nella noiosa routine si aprivano ogni tanto squarci di luce per la mente e sprazzi di energia cerebrale: da una lezione di Negri - che citando con disinvoltura autori di mezza Europa ci catalizzava divagando sul gusto per le rovine nella letteratura del primo Ottocento - si poteva uscire culturalmente appagati; da una lezione della Gallicet Calvetti - che ci parlava con impegno, con fervore e talvolta con rabbia dell’irenismo etico di Spinosa - si poteva uscire assolutamente felici.
Il resto era noia: le lezioni con obbligo di frequenza erano poche, in omaggio ai lavoratori studenti; si passava la giornata spostandosi in piccole mandrie da un’aula all’altra, occupando la biblioteca o la sala di studio, bivaccando nei corridoi.

lunedì 21 dicembre 2009

La paura

La paura è un vuoto vorace che ingoia intero il futuro, soffoca i sogni, annebbia ogni prospettiva e oscura i giorni che altri vedranno.
La paura è una voragine mai colma in cui precipitano i giorni che hai visto, felici o banali, e van perse le ore che hai vissuto, uguali o speciali.
La paura è un buco nero che annulla il blando potere lenitivo dei gesti quotidiani, logora il leggero ffetto anestetico delle pause di noia, guasta l’intimo conforto che danno i luoghi noti e consuma il senso di infantile sicurezza trasmesso dalle cose possedute.
La paura genera mostri che hanno occhi freddi e parole senza carità.

SESSANTOTTO E DINTORNI (21): Firenze

I primi giorni di novembre del 1966 partii per Firenze con un amico che frequentava la sala di studio della biblioteca Queriniana.
La nostra amicizia era nata dalla comune passione per i libri. Parlando delle reciproche letture, mi aveva segnalato e prestato L’Uomo senza qualità di Musil, in due volumi einaudiani dal prezzo per me inabbordabile.
Il viaggio d’andata lo facemmo, naturalmente, in autostop. Trovammo alloggio in un affollato ostello sotto la collina di Fiesole. Mi sorprese la perfezione minuziosa del suo bagaglio, organizzato, completo, esatto, inappuntabile.
Facemmo indigestione di musei, compresi alcuni “secondari” rispetto ai soliti splendidi e visitatissimi Uffizi, Pitti, San Marco e Palazzo Vecchio. Fra un museo e l’altro si mangiava badando al risparmio, rintanati in qualche osteria o sotto uno dei i rari porticati del centro. La pioggia che picchiava ininterrottamente sulla città non ci permetteva le classiche passeggiate all’aria aperta in Piazza della Signoria, al Giardino dei Boboli o all’Orto Botanico vicino al museo Archeologico.
Il 5 novembre dovevamo riprendere il lavoro: il 3, nel primo pomeriggio, abbandonammo la città sotto un violentissimo temporale, diretti verso l’ingresso dell’autostrada vicino alla Certosa.
Sotto la pioggia battente nessuno si fermava per darci un passaggio. Ci infradiciammo quattro ore prima di chiedere al casellante di trasgredire i suoi regolamenti ed ospitarci sotto la pensilina d’ingresso per chiedere un passaggio ai camionisti fermi davanti alla barra.
Mentre su un furgone di muratori pendolari ci inerpicavamo sulle pendici dell’Appennino verso Dicomano, l’Arno straripava in città e un’ondata di fango sommergeva strade e vicoli, inondava case e negozi, allagando la Biblioteca Nazionale, rovinando in Santa Croce ed nel suo Museo dell’Opera, espandendosi nei piani bassi ed nei depositi degli Uffizi, nelle chiese e nelle sacrestie, coprendo il centro di melma e detriti.
Il 4 novembre, di mattina, le televisioni di tutto il mondo mandavano in diretta le immagini del disastro.

Da tutta Italia e da molti paesi d’Europa e d’America accorsero i “cappelloni”.
Di giorno lavoravano fino allo stremo accanto ai fiorentini, vicino ai pompieri e ai militari. Tutti impegnati a salvare il salvabile: i crocifissi lignei del Trecento e le bottiglie di vino delle cantine, i manoscritti della Biblioteca Nazionale e gli attrezzi degli artigiani, le metope etrusche e la merce accatastata nei magazzini dei commercianti.
Di notte riempivano ogni metro quadrato asciutto, affratellati dalla spossatezza, dalla consapevolezza di essere singolarmente insignificanti, formiche minuscole nel disastro immane, ma collettivamente forti, utili, importanti, efficaci, protagonisti di un’azione “storica”.
I lazzaroni si rivelavano infaticabili, le teste vuote sapevano pensare e decidere, i figli di papà dimostravano di saper fare qualcosa che i loro padri nemmeno avevano considerato.
I media li battezzarono immediatamente, con pomposa retorica, “gli angeli del fango”: loro, senza nulla di angelico, spalavano fango con uno straccio sulla bocca, gli occhi arrossati e le vesciche sulle mani.

domenica 20 dicembre 2009

RECENSIONE (4) : Vanni e Vania

Vanni e Vania è la quarta fatica narrativa di R.A.
Il libro racconta la appassionata, timida e segreta storia d’amore di Giovanni, detto Vanni, un distinto scapolo settantenne, in pensione dopo cinquant’anni di lavoro come impiegato al catasto, che vive dignitosamente solo, dopo la morte della vecchissima madre, ed abita in un grande appartamento al primo piano di un vecchio palazzo nel centro storico di Torino. L’oggetto del suo amore è lo splendido manichino femminile di un piccolo negozio di abbigliamento che apre la vetrina di fronte al portone della sua abitazione.

La vicenda si snoda in dieci capitoli, ognuno dei quali racconta una fase della crescente passione di Vanni per la bellissima, fredda, indifferente, inaccessibile, acefala donna che gli sconvolge la vita: l’incontro, potente come una folgorazione, inspiegabilmente frastornante; la prima notte insonne tormentata da desideri, fantasie esagitate, deliri inquieti, allucinazioni, turbamenti e incubi; l’ansia di rivedere Vania (così Vanni chiama la sua splendida androide); le difficoltà che incontra per avvicinarsi alla vetrina e organizzare appostamenti senza suscitare equivoci; i tentativi che fa per convincersi della stupidità della sua infatuazione e per prendere le distanze dalla sua ossessione; le inutili peregrinazioni in cerca di altro a cui pensare; i sogni di conquista, di possesso, di appagamento; le lettere d’amore e le brevi appassionate poesie dedicate alla imperturbabile donna; le fasi mutevoli di un rapporto che vede la tenerezza di un amore sconfinato alternarsi con l’amarezza di un sentimento non corrisposto.
La qualità straordinaria del libro non sta nella prevedibile trama ma nella capacità di farci dimenticare, nonostante i continui rimandi alla realtà, che il protagonista è un povero alienato, che la sua donna è un oggetto di gesso, realistico ma inerte, che i sentimenti descritti sono gli improbabili vaneggiamenti di un perdente.
Di riga in riga, lo scrittore riesce ad inviluppare i suoi lettori nella rete delle incredibili ossessioni del suo protagonista: gli uomini sono portati ad immedesimarsi in Vanni perché con lui rivivono le estasi dell’innamoramento, le cocenti delusioni dell’adolescenza, i travagli di un amore impossibile, la disperazione della passione per una donna senz’anima; le donne si lasciano stregare dalla descrizione accuratissima di delicati sentimenti e si sciolgono nella tenerezza per un povero vecchio pazzo capace però di un amore sconfinato e devastante che svela loro alcuni aspetti della loro misteriosa seduttività, fa percepire il loro potere di attrazione (incrementato dalla impassibilità), consolida la consapevolezza del fascino femminile che può sconvolgere, far perdere la ragione, annichilire.


Scivola via la vita

Scivola via la vita
scivola via da sé lungo percorsi
tracciati da incontri casuali,
da sguardi e sorrisi involontari,
da amori interrotti e treni persi.
Scivola via così
fra rivoli e ristagni,
scivola, gira e si disperde,
altro si fa,
e scorre,
scorre e dilaga,
scorre e raccoglie il suo destino
su un percorso confuso, senza mappa.

venerdì 18 dicembre 2009

La neve

È molto democratica la neve
che nel silenzio bianco cade lieve,
coprendo con identica premura
strade e prati, fiori e spazzatura.
Candeggia i tetti a case e catapecchie,
decora rami nuovi e fronde vecchie,
dal gel protegge le distese d’erbe,
cocci, lattine, carte, stracci e merde.

giovedì 17 dicembre 2009

RECENSIONI (3): Una notte, mille giorni

R. A. ha pubblicato di recente il suo terzo libro intitolato Una notte, mille giorni.
La vicenda narrata è estremamente elementare.
Sotto le macerie di un palazzo crollato in seguito ad una scossa di terremoto, si ritrovano imprigionate una bimba di sette anni ed una vecchia, sua vicina di casa, considerata da tutti una scorbutica asociale.
Le due, pur non vedendosi, sono a portata di voce. La bimba piange. La vecchia, per rassicurarla, le parla, ma soprattutto tenta di far parlare la bambina: la interroga e mostra interesse per lei, le chiede delle sue giornate e della scuola, vuol sapere dei suoi compagni e dei giochi, ascolta le sue paure e i desideri, i conflitti con la sorella, i ricordi delle ultime vacanze, ... Ascoltando la piccola, ripensa alla sua vita e ritorna bambina. Ricorda e rievoca le sue giornate ed i suoi giochi, i suoi genitori e il loro lavoro, la sua vecchia casa ed i vicini, le sue domeniche e le amiche, la scuola e le paure.
Il libro è tutto qui, in questo dialogo sotterraneo sussurrato in condizioni irreali, in queste confidenze incrociate che si snodano parallele mentre fuori è notte e non si colgono ancora le voci dei soccorritori né si avvertono i rumori dei mezzi di primo intervento.
Non succede nulla, non entrano in scena altri personaggi, non si coglie la misura del tempo che trascorre. C’è solo questo lungo, ininterrotto dialogo che si sviluppa fra una piccola ed una vecchia terrorizzate. La piccola inizialmente è reticente per la paura ma poi – parlando delle cose che rendono splendida la quotidianità dei bambini spensierati – ritrova la serenità e quasi dimentica la situazione di sgomento in cui si trova; la vecchia, ugualmente spaventata, si sente però in dovere di vincere o nascondere la sua paura e ritrova, almeno apparentemente, la serenità necessaria per aiutare la bambina a vincere l’angoscia.
Le due “sepolte vive” si chiamano Lucia. L’autore sceglie fra i tanti nomi possibili quello di Lucia, da “luce”, in una situazione contraddistinta dalle tenebre più orrende. Il curioso stratagemma appare forse un po’ artificioso, ma non guasta: è proprio quando avvengono le presentazioni che la bambina si mostra felicemente sorpresa di conoscere una sua omonima, comincia a dimostrarsi più disponibile a parlare e appare meno spaventata.
Non vi è un lieto fine, ma nemmeno un finale tragico. Dopo la lunghissima chiacchierata, la bimba esausta si addormenta. La vecchia resta sveglia ad ascoltare il suo respiro.


La noia

La noia è la mia tana. Coltivo il crepuscolo e il morbido silenzio. Amo i colori sbiaditi dei giorni uguali. Mi adagio con cauta indolenza nel tempo sprecato. Della vita apprezzo gli intervalli e trovo rassicuranti le sale d’attesa, nelle quali la vita è transitoria, sospesa e provvisoria, in uno spazio fermo e trasparente.

lunedì 14 dicembre 2009

Traduzioni

E' una brezza lieve che attraversa l’aria
e subito svanisce senza traccia.
E' tutto.
Chi amo non esiste.
Vivo indeciso e triste.
Chi volli essere ormai non mi ricorda.
Chi sono adesso non più mi conosce.
Intanto,
il profumo che giunge con la brezza,
per un istante,
come una confidenza,
mi sfiora la coscienza.

(Pessoa)

domenica 13 dicembre 2009

Attesa

La troppa attesa accumula negli occhi la tristezza e intenerisce il modo di guardare.

Porta chiusa

Dietro la porta chiusa
c’era una stanza
disabitata da molto tempo.

(F. Dostoevskij, Delitto e castigo)

giovedì 10 dicembre 2009

Metafore

Gira e rigira, vedi splendidi mosaici e vetrate di luce, abbagli rutilanti e simmetrie pefette, universi di stelle e magici fulgori, sfavillanti favole e incanti e paradisi. Ma la sostanza è un tubo di cartone, tre scheggie di specchio e un pizzico appena di frammenti di vetro colorati.

lunedì 7 dicembre 2009

Architetture

Il vento restituisce al deserto
la polvere delle piramidi;
il sole cuoce e sfalda
i marmi di Atene;
si sgretolano nella foresta
i templi birmani;
sono corrose dalla pioggia
le alte cattedrali di Francia.

Mentre guardo le metropoli
dense di arroganti monumenti,
so che dentro queste lucide geometrie
degenera il cemento
e si sfiancano i metalli;
so che ogni materiale
vive la sua lenta metamorfosi;
so che il profilo di questa città
aspetta acqua e vento.

sabato 5 dicembre 2009

Poesia

Non si domandi pertanto al poeta ciò che ha pensato o sentito,
è proprio per non doverlo dire che scrive versi.
(Josè Saramago, L’anno della morte di Ricardo Réis)

Aprono sentieri le parole
nell’intricata mente.
Se spiego quel che ho dentro,
un poco lo decifro anche per me.
L'ansia, se la racconto, si sgroviglia.
E l'universo mio confuso
in quel che dico prende consistenza.

Omero

Ora brancolo confuso
fra le ore del giorno
come il cieco Omero fra gli avelli,
mentre il tempo mi scorre fra le dita
e le notti vengono
a darmi improbabili equilibri.

Ho perso l’istinto di vivere la vita,
quello proprio del bambino
che sgrana il tempo tutto suo
in una densa successione
di istanti eterni,
senza passato né futuro,
e sta seduto sotto il sole
a dirottare una fila di formiche
beatamente,
beatamente solo,
lasciandosi sorprender dalla sera.

venerdì 4 dicembre 2009

Grigio

Il cielo è grigio, senza squarci. Cade da settimane una silenziosa minuta tristezza che si annida sotto la pelle, e ti impregna, e ti sfalda. I pensieri che emani li vedi come il fiato nel freddo.

giovedì 3 dicembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (20): Via da Amsterdam

... Non me la sentivo di proseguire quel viaggio: la meta vagheggiata, Amsterdam, non mi attirava più. A dire la verità, non mi aveva mai attirato. Risalendo il Reno ci sarei arrivato inevitabilmente: per questo tenevo un cartello di John con scritto “AMSTERDAM”. La città olandese era la meta naturale di chi percorreva l’autostrada verso nord, di chi seguiva la corrente del fiume e di chi assecondava il flusso di tutti quegli scombinati che vi confluivano in cerca di “sesso, droga e rockenroll”. Amsterdam era come La Mecca: ogni anticonformista doveva farci un pellegrinaggio nella vita prima di essere ammesso nella comunità dei beat. Tutti i cappelloni del mondo erano lì, come mosche sulla merda, a guardare i battelli in transito sui canali, a cercare fumo, ad affollare i giardinetti e a percorrere le strade del quartiere a luci rosse.
Io, dopo la storia di Praga, non avevo voglia di “gettarmi in quel gomitolo di strade”. E poi il mio istinto mi diceva che seguire il flusso degli anticonformisti era una forma di conformismo inconsapevole e scemo. Era come non tollerare l’intolleranza, elevare a religione l’ateismo, proclamare dogma l’antidogmatismo.
Avevo sognato di arrivare ad Amsterdam solo per una ragione: farmi una scorpacciata di musei e poi tornare per raccontare agli amici la plasticità dei Van Eyck più che quella delle turiste disinibite; per descrivere le inquietanti visioni oniriche di Bosch più che quelle prodotte dalla canapa; per decantare le rotondità dei quadri di Rubens e Van Dyck e non quelle delle puttane in vetrina; per esaltare i personaggi ed i paesaggi ritratti da Van Gogh, più pastosi, densi e cupi delle notti d’Olanda.
Decisi di abbandonare la Germania, di puntare a sud-ovest, lungo la Mosella - risalendo la corrente - verso il Lussemburgo.
Ma il viaggio aveva perso senso. I percorsi erano tragitti; le mete diventavano soste; gli incontri non lasciavano segni. Mi sedevo sugli scalini di una chiesa, sulle panchine dei giardini, sulle sedie fuori da un bar, sul bordo di una fontana e osservavo la gente; sostavo davanti a un museo, ai margini di una piazza, sotto un portico, alla fermata degli autobus, sopra un ponte e guardavo scorrere la vita. Ascoltavo le voci senza tentare di capire: mi piaceva immaginare che dicessero cose strepitose, ma sapevo che si scambiavano banalità, si lamentavano del tempo, del governo o del mal di piedi; mi piaceva immaginare che corressero a fare chissà cosa, ma sapevo che erano in ritardo per la cena, correvano dal dentista, scappavano dal lavoro. Guardavo i miei coetanei e immaginavo tutti più felici di me, ma sapevo che ce n’era di più scontenti, di più stupidi, di più squallidi, di più soli. Guardavo le ragazze e ne vedevo di carine ma anche di ciospe, di scialbe, di furuncolose, di inavvicinabili. I vecchi erano vecchi, i poliziotti erano poliziotti, i bottegai erano bottegai. I paesaggi erano interessanti, ma paragonabili a quelli del Veneto, dell’Umbria, dell’Emilia. Il traffico era fastidioso come ovunque, i grossi cartelloni pubblicitari erano invadenti e stupidi e con slogan scontati.
A tappe regolari arrivai in Francia: mi parve che cambiassero solo gli odori. Attraversai la Lorena, puntai su Nancy per arrivare a Lione. Rientrai in Italia attraverso il traforo del Monte Bianco. A Chamonix mi parve, come un viandante, di essere in vista della strada di casa.

mercoledì 2 dicembre 2009

La notte

Vi passò tutta la notte, trascorsa in un dormiveglia interrotto ogni tanto dai morsi della fame, dai crucci e da vaghe speranze.
(Franz Kafka, La metamorfosi)

martedì 1 dicembre 2009

Dettagli

Mi concentro sui dettagli, senza slanci.
Alimento con futili interessi le mie ore.
E il tempo che mi opprime mai non scade.

SESSANTOTTO E DINTORNI (19): Marie, detta Svoboda

A Basilea, nell’ostello, feci amicizia con una cecoslovacca da poco emigrata in America. Si chiamava Marie, ma io la chiamavo Svoboda, come il suo presidente, per scherzo, ma anche per i suoi modi bruschi, il suo carattere chiuso, la sua taciturna introversione. Viaggiava verso nord, nella mia stessa direzione: a lei faceva comodo avere un compagno di viaggio, per sicurezza, considerato che anche allora le ragazze sole erano malviste e correvano qualche pericolo; a me faceva comodo avere una compagna di viaggio, per utilitarismo, considerato che era più facile ottenere passaggi se ero in compagnia di una ragazza, bella o brutta che fosse.
Risalimmo la valle del Reno, attraversando Friburgo (l’apoteosi del medioevo tedesco), la Foresta Nera (anche dall’autostrada si capisce che il nome è indovinato), Baden-Baden (che noi ridacchiando chiamavamo Baden-Baden-Baden), Heidelberg (dove, secondo le guide turistiche, si sarebbe dovuto respirare in ogni angolo aria di erudizione), Mannheim (dal castello ricordo un panorama fumoso ma splendido, con la confluenza del Neckar nel Reno), Mainz (altra confluenza Reno-Meno; visitando la città seppi che Mainz non era altro che Magonza, la città di Gutenberg), Coblenza (altra confluenza Mosella-Reno, ricordo una chiesa con due sproporzionati e inverosimili campanili nella facciata).

Io e Svoboda stavamo insieme me non eravamo insieme. Si parlava poco, in un francese incerto, il suo diverso dal mio, e più incerto. Si mangiava in fretta, si trottava molto, si riposava affiancati, girandoci la schiena.
Una sera - il sole al tramonto ispirava nostalgie e confidenze - le chiesi di parlarmi della sua vita in America. Mi disse che c’era da pochi mesi e che dell’America non voleva parlare. Le chiesi allora di Praga. Mi disse un po’ cupa che non voleva parlare nemmeno di Praga. Le chiesi di Kafka, mi ripose con un silenzio ostinato, a testa bassa. Parlai io di Kafka, come se dovessi svolgere una relazione, ma con entusiasmo: parlai della gelida storia di spersonificazione di Samsa ne La metamorfosi e della sensazione di forte immedesimazione che avevo provato nel leggerlo; parlai dell’inquietudine che mi aveva assalito nel leggere Il processo, del senso di lacerazione che ti prende scorrendo le pagine de Il Castello; parlai degli sconcertanti Diari e, siccome continuava a tacere, mi misi a raccontarle le pagine che mi avevano maggiormente colpito. Le chiesi se si riconosceva, considerato il suo esilio, nelle vicende di Rossman emigrante in America .
Parlando mi infervoravo. Svoboda cominciò ad un certo punto ad allentarsi e a sbirciarmi incuriosita, sempre sospettosa. Forse non capiva quello che dicevo. La vidi però attenta, a tratti mi pareva quasi attratta. Feci ancora qualche considerazione. Dissi che amavo Kafka perché lo sentivo vicino al mio modo di essere. Le parlai di me con la stessa foga con cui avevo parlato di Franz, sovrapponendo il mio mondo al suo, la mia angoscia alla sua, la mia desolata inquietudine alla sua.

Ad un certo punto, mentre mi attorcigliavo in considerazioni troppo complicate e cominciavo ad eccedere col mio narcisismo, mi accorsi che Svoboda stava piangendo. Nel quasi-buio della sera vidi chiaramente i suoi occhi pieni e le lacrime non frenate. Mi bloccai. Lasciai che si ristabilisse il silenzio, dopo tante chiacchiere inopportune. Ed aspettai senza chiedere.
Svoboda cominciò a parlare, sottovoce, quasi impercettibilmente. Mi parlò, con frasi brevi e smozzicate, in quel suo francese duro. Mi parlò di Praga, del suo quartiere, della sua strada. E mi raccontò dei carri russi che erano passati davanti al suo palazzo la notte fra il 20 ed il 21 agosto del 1968.
Era passato solo un anno, ma Marie aveva tutto scolpito in testa. Raccontava senza interrompersi, come se recitasse una preghiera ripetuta mille volte, con un bisbiglio monotono. Ricordava i rumori dei motori nella notte, la fila dei camion e dei carri armati, l’idea che fosse un’esercitazione militare, la colonna dei blindati che non finiva più; le luci che si accendevano una dopo l’altra a tutte le finestre, la gente che scendeva in strada in pigiama, i carri, i soldati sui carri, divise russe, polacche, ungheresi; la colonna che non rispettava il semaforo, i cingolati che svoltavano verso il centro sgretolando l’asfalto.
Svoboda piangeva senza frenarsi e continuava a ripetere: ”L’asfalto, hanno rovinato l’asfalto, hanno rotto la strada; hanno lasciato buche, tombini sfondati, selciato dissestato; hanno rovinato tutta la mia strada; e continuavano a passare sui detriti, fino a scorticare il fondo, a far affiorare la terra,…; non c’è più la mia strada, me l’hanno rovinata tutta …”.
La chiamai per nome - Marie - e le presi delicatamente la mano. Continuò a piangere come si io non ci fossi. Le lasciai la mano e me ne restai lì seduto in silenzio ad ascoltare i suoi singhiozzi.
Le prestai il fazzoletto per soffiarsi il naso.
Quando si quietò rientrammo all’ostello, senza parlare.

Il mattino dopo Svoboda-Marie venne a salutarmi: aveva la febbre, avrebbe preso il treno per Colonia e poi l’aereo per casa.
Mi abbracciò stretto stretto, si staccò per guardarmi con una smorfia che pareva sorriso ma forse non lo era, mi ringraziò tenendomi le mani sulle spalle, guardò il mio imbarazzo, mi strinse ancora forte, lei tremante, io impalato, come il vero Svoboda.
Poi si staccò bruscamente e se ne andò senza voltarsi indietro.

SESSANTOTTO E DINTORNI (18): John

Da Venezia presi la direzione di Milano. Il camionista che mi diede il primo passaggio mi lasciò in un autogrill dalle parti di Vicenza. Mi aggregai sullo svincolo d’ingresso ad un compagno attrezzatissimo (pareva uno scout col suo bravo zaino, lo stuoino infilato di traverso nelle cinghie dello zaino, il sacco a pelo, la borraccia a bandoliera, il cappello a tese larghe col laccio sottogola; ed era perfino dotato di un grosso pennarello e di un pacco di cartoncini bianchi rettangolari per scriverci in stampato la città-traguardo da mostrare alle macchine in transito). Era prassi consolidata che gli autostoppisti solitari si accoppiassero per ottenere più facilmente i passaggi e per viaggiare sicuri.
Il giovanottone era di New York; si chiamava John Mc Gibbon; era diretto ad Amsterdam per ricongiungersi con il padre e riprendere il volo per gli USA. Trovammo subito un passaggio. L’automobilista che ci raccolse usciva al casello di Brescia ovest; era mezzogiorno; mia sorella abitava a poca distanza; con qualche difficoltà linguistica ma aiutandomi a gesti invitai John - che parlava solo inglese - a pranzo: facemmo una doccia sotto gli alberi del parco, con la canna per innaffiare le aiole, mangiammo salamine alla brace e ripartimmo immediatamente. Era necessario arrivare a Lugano o a Locarno o a Bellinzona prima di notte per trovare ospitalità nell’ostello e per partire poi di buonora per il passo del San Gottardo che, mi spiegò John, doveva essere attraversato, non capii perché, di mattina.
Arrivammo a Bellinzona verso l’imbrunire. John mi disse che lui non dormiva nell’ostello, che si sarebbe organizzato diversamente. Abbandonò l’asfalto e si diresse verso un cantiere sul pendio della collina. Si fermò a venti passi, si aggiustò lo zaino, si girò. Non capii se per salutarmi o per invitarmi a seguirlo. Non avevo voglia di mettermi a cercare l’ostello. Mi incuriosiva sapere come il cow-boy avrebbe risolto il problema della notte. Lo seguii. Entrammo nella villetta in costruzione: mancavano porte e finestre, l’impianto elettrico era in fase di allestimento, mancavano i pavimenti, non tutte le stanze erano intonacate. John spazzò un angolo di una stanza con un mozzicone si scopa trovato fra i calcinacci, aprì dei fogli di cellofan inzaccherati di malta, ci stese sopra uno stuoino e sopra lo stuoino srotolò il sacco a pelo. Lo guardavo , come un apprendista guarda il maestro. Si sedette su due sacchi di cemento, tirò fuori il sacchetto dei viveri e si mise a mangiare. Mangiucchiai anch’io alcuni avanzi, sbirciandolo, e ostentando disinvoltura. Mangiammo in silenzio. John bevve una lattina di birra calda, con l’ultimo sorso si sciacquò rumorosamente la bocca, sputò la schiuma fuori dalla finestra e si infilò nel sacco a pelo. Era quasi buio. Gli dissi “gutnait” e uscii dalla stanza. Una scala senza ringhiera portava al piano di sopra. Salii la scala alla luce dell'accendino. In cima alle scale si aprivano tre porte su due camere e un bagno. La vasca da bagno era già murata ma ancora protetta da carta adesiva e ingombra di calcinacci. Mancava la rubinetteria. Tolsi i calcinacci, distesi nella vasca il mio sacco a pelo, mi sdraiai. Dalla finestrella del bagno si vedeva il profilo di una collina e un pezzo di cielo con le sue brave stelle.
La mattina fummo svegliati alle sei dal trambusto dei muratori che si preparavano al lavoro. Dopo aver fatto fagotto delle nostre robe, sfilammo davanti a loro in silenzio. Uno ci salutò con una certa simpatia.
Ad Airolo, sulla strada che saliva al Gottardo, superai il mio record di attesa di passaggio - quasi quattro ore - e dovetti rassegnarmi a prendere il treno per Andermatt, dall’altra parte del passo. Seppi poi che le auto venivano caricate sul treno e trasportate al di là della galleria e pagavano un pedaggio al quale si aggiungeva una gabella per ogni passeggero trasportato.
Andermatt la ricordo incassata fra alte pareti di montagna; sole due ore di sole al giorno in estate; una fontana con l’acqua più fresca e buona di tutta la mia vita; un piccolo ostello grazioso, pulito, confortevole; un pranzo leggero e gustoso; un’aria frizzante, proprio svizzera.
A Basilea John prese il treno per Amsterdam perché era in ritardo sulla tabella di marcia. Visitai Basilea in un giorno e mezzo: ricordo solo una cattedralona protestante. Girando per le strade, per assorbire il genius loci, come amavo fare in ogni città nuova, fiutavo reminiscenze confuse di Concili, Trattati, contese e robe del genere; mi facevano sorridere poi anche altre insopprimibili reminiscenze suggerite dal nome tedesco della città – Basel, che in bresciano vuol dire “bacialo” – o da quello francese – Bâle, la cui traduzione in milanese è facilmente intuibile.