venerdì 6 novembre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (13): polizia

La squadra politica conosceva parecchi di noi. Alcuni, i capi e i casinisti, erano sicuramente schedati. Ma si favoleggiava che fossimo schedati tutti, anche quelli che, eversori emergenti, erano semplicemente passati per la facoltà occupata: eravamo convinti che in uno scantinato di via Musei ci fosse un classificatore con le nostre cartellette di cartoncino sulle quali, con rotonda grafia, era segnato il nostro nome, cognome, luogo e data di nascita, residenza; e che dentro, su foglietti ordinati, fossero conservate altre informazioni utili: il mestiere dei genitori, l’orientamento politico della famiglia, il credo religioso, l’appartenenza sindacale; lì venivano registrate con accurata meticolosità la nostra adesione alle manifestazioni, la partecipazione ad occupazioni, il ruolo da noi assunto nei cortei, il comportamento tenuto nei sit-in.
La polizia ci teneva d’occhio. Fischiettando le musiche di Theodorakis ci sentivamo un po’ tutti dei Panagulis.
Ma anche noi tenevamo d’occhio la polizia…
… Un pomeriggio d’inverno (quella sera il Grande apriva la stagione lirica) bighellonavo sotto i portici con i soliti quattro amici. Da bravi scioperati facevamo le canoniche tre “vasche”, tra piazza Loggia e via Mazzini, percorrendo i portici di via X Giornate e quelli di corso Zanardelli, andata e ritorno.
In corso Zanardelli appunto, presso il cinema Centrale, ci eravamo fermati a sbirciare la programmazione delle sale cinematografiche della città (allora c’erano almeno dieci sale in centro: Centrale, Crociera, Sociale, Aquiletta, Magenta, Astra, Odeon, Eden, Moderno, …).
Davanti al Grande c’erano assembramenti variegati: capannelli di avvocati e notai, bivacchi di studenti sui gradini del teatro, famigliole provinciali assiepate davanti alle vetrine, sfaccendati eterogenei che slalomavano spintonando tutti.
Riconobbi, proprio davanti alle vetrine del cinema, un poliziotto della squadra politica: mi pareva impegnato a studiare i passanti facendo finta di essere impegnato a chiacchierare con due tipi che, dall’abbigliamento trasandato in contrasto con le scarpe lucidate con zelo militare, si rivelavano bellamente come dei questurini in servizio permanente effettivo.
”Quelli sono della pula, … passaparola. Venite con me che gli facciamo uno scherzo” dissi a Luigi.
Ci muovemmo nella loro direzione.
Dietro di me Luigi avvertiva il gruppetto.
Non ci fu bisogno di concordare il copione.
Avevamo appena finito di scambiarci notizie ed opinioni sul lancio di uova marce che i compagni di Milano avevano organizzato per boicottare la prima della Scala, contestare la manifestazione mondana e l’ostentazione della ricchezza, stigmatizzare l’esibizione del decoro borghese e sottolineare la sfrontata insensibilità della classe capitalistica.
Giravano voci che, contro le signore impellicciate e contro le ingioiellate madame della borghesia milanese, erano stati lanciati palloncini pieni di vernice rossa, a simboleggiare il sangue dei visoni versato sull’altare della vanità: lo sfregio indelebile (si trattava di vernice a olio) segnava l’inizio di una rivolta delle vittime contro gli oppressori, l’avvio di una vendetta, il primo squillo di una rivoluzione.
Ci appostammo alle spalle del terzetto ed iniziammo la pantomima dei Carbonari.
Con una voce da cospiratori, tono basso ma volume che potesse arrivare alle orecchie tese dei questurini, chiesi agli amici se era “tutto pronto”.
- Ho preparato tutto io – disse Luigi.
- Dove avete messo la roba?
- Nella cantina di Beppe.
- Avete preparato anche i cosi?
- Gli embrioni?
- Eh, certo!
- A che ora ci troviamo?
- Alle otto!
- Non è mica meglio alle undici, per l’uscita: fa più effetto!
- No, meglio prima: boicottare è meglio che guastare; prevenire è meglio che curare!
- Viene anche Mario?
- No, Mario non può venire: suo padre lo ha castigato: è agli arresti domiciliari!
- Quanti siamo in tutto?
- Tutti, meno Mario.
- Portiamo i fazzoletti da muso?
- Meglio di si….
E via improvvisando.
Dietro di noi gli agenti in borghese stavano con le orecchie tirate: non facevano nemmeno più finta di chiacchierare tanto erano tesi, allibiti per la nostra disinvoltura, sconcertati per la nostra ingenuità, felici come topi capitati per caso in un magazzino di formaggi.
Il nostro gruppo, sempre complottando, si spostava – tre passi e una sosta – verso via Mazzini.
La ronda ci tallonava con manovre incerte. Uno di loro smanettava con una ricetrasmittente.
- Andiamo alla macchina! disse Luigi, e accelerò il passo. Noi dietro.
I poliziotti si misero decisi alle nostre calcagna.
Aumentammo l’andatura: aumentarono l’andatura.
Ci fermammo un attimo, come incerti se tornare indietro: si fermarono incerti.
Ripartimmo: ripartirono.
Mi fermai a bere alla fontanella dietro un pilastro, con gli amici che facevano crocchio intorno a me: uno degli agenti si chinò per allacciarsi una scarpa, con i due colleghi che gli facevano la guardia.
Passando dietro l’edicola ci bloccammo a studiare le offerte filateliche: uno di loro si arrestò a guardare le riviste di navigazione a vela, un altro si infilò nell’andito di una vetrina per tenerci d’occhio attraverso i vetri, il terzo si mise a tastare con aria preoccupata tutte le tasche che aveva.
Affrettammo il passo verso l’angolo di via Mazzini, dove finiva il portico: la pattuglia affrettò il passo a pochi metri da noi.
Girato l’angolo, uno di noi partì di corsa, e gli altri via dietro: sentimmo lo scalpiccio di scarpe chiodate alle nostre spalle.
Attraversammo la strada per infilarci nella stretta traversa di via Antiche Mura: il terzetto non mollava.
Imbucammo la viuzza e partimmo di gran carriera: bastava arrivare in fondo alla via e dividersi, due verso piazza Vescovado e due in corso Magenta. Saremmo tornati sul corso affollato e ci saremmo dispersi. In fondo a vie Antiche Mura, in quel momento deserta, si pararono a far da diga tre o quattro individui schierati. Dietro di noi i tre imboccavano la via e avanzavano tranquilli, allineati, al passo, in sincrono, con i pollici infilati nelle cinture.
Senza una parola, noi ci raggruppammo come pollastri nella capponaia; senza una parola, loro fecero cerchio e uno ci chiese i documenti.
Armeggiando fra tasche e portafogli tirammo fuori le nostre carte e, remissivi e mogi come cani bastonati, formammo una specie di fila. Quello che sicuramente era il loro capo prendeva il documento, lo rigirava schifiltoso fra le mani, lo studiava, leggeva cognome, nome e indirizzo ad alta voce, ripeteva il cognome come per fissarlo nella mente, lo scandiva come per ripescarlo nella memoria, lo sillabava guardando il suo sottoposto che trascriveva tutto su un taccuino, compitando come uno scolaretto lento.
Noi aspettavamo silenziosi, gli assedianti ci osservavano tranquilli.
Dopo ogni registrazione, la nostra carta di identità passava nelle tasche del capo.
L’operazione non finiva mai.
Finito il giro, il capo tirò fuori dalla tasca i nostri documenti, li mescolò come un mazzo di carte, ci fissò per qualche secondo continuando a smazzare in silenzio; poi cominciò a restituirci le nostre carte, una per una, pescando a caso come un cartomante, e rileggendo i nomi come per un appello.
“Potete andare – disse alla fine con paterna accondiscendenza – ma state attenti: non fate giochetti pericolosi, pericolosi per voi, intendo. E andate a nanna presto stasera!”
Nessuno fiatò.
Ad un suo cenno il cerchio si aprì. Il drappello si mosse compatto verso il centro: i poliziotti sfociarono su via Mazzini e si dispersero nel traffico della strada illuminata.
Per non essere costretti a seguirli, restammo disorientati nelle ombre del vicolo, col nostro portafogli in mano.
Uno mormorò:
- Che facciamo?
Ritrovammo la voce.
- Siamo stati proprio coglioni!
- Che ti è venuto in mente?
- E tu, allora?
- Adesso quelli hanno i nostri nomi e indirizzi!
- Metti che qualche cretino stasera lanci le uova!...
- Metti che qualche idiota esaltato stasera metta una bombetta, o anche solo un petardo!...
- Siamo fregati: ci vengono a tirare giù dal letto.
- Ci tengono in guardina finché non trovano i colpevoli.
- Ci tengono finché non trovano un pretesto per incastrarci, ché tanto i colpevoli non li trovano mai.
- Ci rompono le ossa.
- Facciamo la fine di Pinelli.

Tornammo circospetti in via Mazzini e ci infilammo nell’osteria Frascati a rincuorarci con un bianco con l’oliva e a decidere cosa fare: stabilimmo di dividerci subito, di passare la serata separati e distanti, di intrupparci in compagnie di insospettabili, in locali pubblici, facendoci notare, per avere – ognuno di noi – un alibi.
Tornai al mio paesello, cenai in fretta, me ne andai subito al bar a giocare a briscola (litigando col mio socio), poi a boccette (contestando tutti i punti con pignoleria insolita), poi a scala quarante (perdendo rovinosamente) ...

Nessun commento:

Posta un commento