martedì 10 novembre 2009

1950 (4): La messa dei defunti

Alcune mattine venivo trascinato in chiesa da un amico, arruolato nella schiera dei chierichetti.
Prima della Messa si celebrava un fascinoso rito chiamato l’Ufficio dei defunti.
Ricordo confusamente la chiesa poco illuminata ed un enorme catafalco collocato al centro della navata, coperto da drappi neri bordati d’argento, circondato da pesanti candelabri.
Ricordo il fumo dell’incenso, il tremolare delle fiamme delle candele, i paramenti lugubri, gli odori di cera, di legno e di resina.
Ricordo lo splendido e terrificante canto del Dies irae e la potente voce baritonale del prete che sovrastava le cantilenanti e strascicate voci nasali delle beghine.
Ho dimenticato le formule latine delle preghiere di cui nessuno capiva il significato ma a cui noi tutti, proprio grazie alla loro indecifrabilità, attribuivamo arcani poteri taumaturgici. Ma ricordo i pensieri che accompagnavano le assonnate preghiere per i defunti: mi perdevo ad immaginare le anime evanescenti che, liberate dal purgatorio per le nostre insistenti orazioni, uscivano dalle fiamme purificatrici in quelle crude mattine d’inverno e, attraverso misteriosi percorsi sotterranei, entravano nella nostra chiesa sbucando dalla botola sotto il catafalco, si mischiavano ai pennacchi di fumo che svaporavano dal turibolo, salivano a frotte verso i lampadari spenti, lambivano i finti marmi delle lesene e dei cornicioni, stagnavano sotto gli affreschi della volta indugiando ad ascoltare le ultime litanie e poi uscivano nell’aria gelida per dirigersi verso il cielo.
I pensieri galleggiavano liberi sulle onde delle nenie liturgiche e fluttuavano leggeri sulle ombre tremolanti.
Coltivavo fantasie eterogenee.
Qualche volta mi perdevo a pensare dove potessero essere le anime dei miei sconosciuti defunti: quella di una nonna di cui avevo sentito celebrare le virtù (“scomparsa lasciando una numerosa famiglia che tristi la rimpiangono”), quella di uno zio alcolizzato, “reciso” nel fiore degli anni, quella di una sorellina senza nome, nata morta e sepolta in un angolo del cimitero disseminato di sagome di angioletti ritagliate in povera lamiera.
Una volta l’anno la cerimonia mattutina era commissionata dai miei in suffragio dei defunti della famiglia e vedeva la straordinaria partecipazione di tutti i miei parenti: da dietro il bastone di una croce o attraverso il fumo del turibolo li sbirciavo fiero del mio ruolo, incuriosito dell’inconsueto assembramento e del loro solenne portamento, stupito della loro immobile e sonnolenta gravità.
In una di quelle occasioni, la mia fede subì una prima incrinatura in quanto mi trovai a pensare alla imperscrutabilità scontrosa ed un po’ sadica di un Padreterno che assorbiva impenetrabile e muto le nostre orazioni e ci faceva congelare i piedi e sprecare il fiato in estenuanti suppliche per chiedere la liberazione delle anime dei nostri nonni che avrebbero potuto essere, solo Lui lo poteva sapere, forse inchiodate senza remissione all’inferno o forse beate in paradiso, purgate e redente da precedenti devozioni.

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