mercoledì 7 ottobre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (10): Anarchia e osteria

Quasi tutte le sere mi trovavo con gli amici di città in qualche osteria alla buona, dove il vino costava veramente poco e dove, per asciugare il vino, si poteva prendere qualcosa di solido senza dilapidare gli esigui patrimoni. Evitavamo le due osterie famose nelle quali si ritrovavano i notai, gli avvocati e i liberi professionisti. Preferivamo un’osteria ruspante collocata in una viuzza stretta in pieno centro: porta di legno, tre gradini da scendere, muri umidi e male intonacati, pilastri ingombranti, archi e vele di mattoni e pietre, bocche di lupo con inferriate, luce accesa tutto il giorno. Solo in quella vineria si poteva incontrare il vecchio mandolinista dell’orchestra del Teatro Grande, il materassaio anarchico, il pittore che pagava l’oste con dei quadri che nessuno comperava, il partigiano al quale era rimasta la sete – non solo di giustizia e libertà – e la voglia di mitra.
I tavoli erano enormi, di legno pieno, lucidati dai gomiti di generazioni di clienti; il loro ripiano raccontava la storia di decenni, ferito da tagli di coltello, sgraffiato da incisioni varie, bruciacchiato da sigarette abbandonate, macchiato da rotonde impronte di bicchieri. Erano disposti lungo le pareti con panche dalla parte del muro e sedie impagliate sull’altro lato: l’ostessa non aveva abbastanza entrate per cambiarli con quei leggeri tavoli di fòrmica gialla che apparivano nei bar, con gambe di metallo, bordo paracolpi di plastica, superficie quasi vetrosa, impermeabile al vino tracimante, facile da pulire.
I tavoloni a noi piacevano perché imponevano la convivialità. Chiunque entrasse nell’osteria infatti, fosse solo o in compagnia, doveva sedersi accanto a chi già occupava una parte del tavolo. E se arrivavano altri clienti ci si stringeva per far posto.
Con i miei amici cominciammo a frequentare questa bettola e, come era prevedibile, in poco tempo diventammo clienti abituali, noti all’ostessa e al suo clan.
Il meccanismo di assimilazione era semplice: chi entrava anche solo per caso nell’osteria non poteva, per ragioni planimetriche, non mettersi in contatto con i presenti: se si sedeva non poteva non salutare ed era praticamente costretto ad entrare in qualche modo nel circuito della conversazione; se restava in piedi, sovrastando tutti come da un pulpito, era anche senza volerlo al centro di tutte le chiacchiere e delle discussioni e, prima o poi, veniva chiamato in causa per esprimere, dal pulpito appunto, il suo autorevole parere super partes. In un caso o nell’altro il gioco era fatto: se, avventore occasionale, non tornava più, veniva dimenticato; se, aspirante cliente, tornava una seconda volta veniva riconosciuto; la terza volta veniva ammesso, la quarta affiliato e battezzato.
Il rito di iniziazione si perfezionava, prima o poi, con un brindisi generale. In quell’occasione di solito uno degli anziani, avendo già avuto modo di conoscere il catecumeno, assegnava il nome di battaglia.
Quasi nessuno all’osteria veniva chiamato con il proprio nome: la foto di gruppo degli stanziali comprendeva Mandolino, Pennello, Principe, Americano, Bogia, Chiodo, Terrone, Linguetta, Brillantina, Cavicchio, Merenda e Rosina.
Noi avventizi eravamo chiamati, solo nel club, Dottore, Barba, Binocolo, Tacapanni; e le rare ragazze Capricciosa, Belabionda, Maestra. Una era chiamata Mandolino, non per il suo virtuosismo musicale.
L’ostessa era chiamata Zia da tutti, e noi ragazzi non trovavamo strano che anche un vecchietto decrepito e tremolante chiamasse la zia, quarant’anni di meno, per asciugare il vino versato sulla
panca.
Fra un mezzo litro e l’altro si ordinava pane e salame, aringhe e cipolla, fagioli e tonno, stracchino e peperoni. Quando c’era, raramente, ci si lasciava tentare da una scodella di trippa.
Le discussioni erano sempre a sfondo socio-politico e partivano invariabilmente da un fatto di vita quotidiana, da una lite con lo stagnino o col padrone di casa, da un conto non pagato, dal prezzo della carne, dall’andamento di una causa civile coi parenti per questioni di successione.
Le opinioni dominanti avevano tutte una venatura anarchica, da destra sociale o da sinistra per la lotta di classe, proletaria o lumpenproletaria: sulla negazione del capitalismo e dello stato borghese c’era una intesa generale, interclassista e intergenerazionale, espressa in modi diversi, consoni alla cultura di ciascuno o propri delle diverse età. Questo sorprendeva noi sbarbatelli, intimamente convinti che solo gli intellettuali lettori di Marcuse potessero nutrire malumore contro la società dei consumi e indignarsi per la massificazione.
Qualche volta le discussioni si facevano rumorose: ma se ci si scontrava, lo si faceva per superarsi a vicenda nel radicalismo, per spararla più grossa, per gonfiare di più i muscoli contro gli sfruttatori, per essere rivoluzionari in modo più convincente.
Nessuno voleva essere meno libertario, meno ribelle, meno arrabbiato di altri. Litigavamo furiosamente per darci ragione. Fra una bicchiere e l’altro i toni salivano e l’aria si impregnava di fumo e di tensione.
Se un questurino della squadra politica avesse raccolto i nostri sfoghi, avrebbe avuto ragioni per schedarci nella lista dei sospettati per eversione, apologia della lotta armata, terrorismo.
Lo spirito carbonaro svaniva quando la Zia calava dall’alto un cartoccio di gorgonzola e riportava i giacobini alla realtà.
I sovversivi si pacavano anche quando qualcuno cominciava a toccare le corde della chitarra: i polemisti ostinati venivano zittiti e si rimaneva in attesa per capire se gli accordi preludevano ad una esibizione del solista o invitavano al canto corale.
Il repertorio era molto particolare: la clientela tradizionale ammetteva solamente le canzoni della
mala, quelle di protesta e i canti della resistenza. Bella ciao dava allegria; Fischia il vento ci commuoveva fino alle lacrime; l’Internazionale ci riempiva dell’orgoglio di appartenere ad un movimento mondiale schierato per la giustizia che prima o poi avrebbe trionfato; in Ma mi si realizzava l’unità fra gli eversori e i ladri, soprattutto nel ritornello che esalta la fierezza e il coraggio del ribelle, la dignità del perseguitato, la solidarietà del ladro, la caparbietà e la rabbia dell’oppresso, la tenacia e l’angoscia del martire. Ai romantici agitatori si univano i partigiani della caraffa che trascinavano il coro verso un disarmonico frastuono fatto di ritmi a singulto e melodie strascicate, recitativi striduli e finali da tenore sfiatato.
Qualcuno tentava di introdurre nel repertorio le prime canzoni di Jannacci (L’Armando o El portava i scarp de tennis) o quelle dei Gufi (Natale): il coro però in questi casi riposava. Si ascoltava il solista, lo si applaudiva, si apprezzava il contributo per lo spirito di coerenza con l’ambiente, si chiedeva qualche bis, ma questi nuovi apporti non venivano assimilati e non diventavano patrimonio comune.
Lo stesso accadeva con qualche canzone particolarmente impegnata, come quelle di Paolo Pietrangeli (Contessa del ’66, Il Figlio del Poliziotto del ’65, Il vestito di Rossini del ‘67), di Ivan Della Mea (O cara moglie del ‘68), di Tenco (Cara Maestra del ‘63, Il mondo gira del ‘67) di Nanni Svampa (Gh'e'anmo un quajvun del ’64), di Sergio Endrigo (La guerra del ’63) e poi altre di anonimi, come La ballata di Pinelli che già circolava nel ’69 a pochi giorni dal fatto.
Il gruppo di cantori subentrava di nuovo, inciampando nelle parole, con La guerra di Piero di De André (del ’63) e con La bella festa nella quale i nostri amici pensionati vedevano fotografata la loro storia.
La splendida canzone Per i morti di Reggio Emilia di Amodei ci sgorgava dal cuore e ci strappava le lacrime, come se i compagni fossero nostri fratelli e fossero caduti quel giorno sotto i colpi dei celerini.
Ogni tanto qualcuno intonava pezzi d’opera e spremeva da quelle arie diventate popolari tutta la voglia di sentimento.
Noi introducemmo qualche canto goliardico: furono bene accolti i canti in latino (Gaudeamus igitur) che dissacravano la lingua della chiesa; ma anche i canti triviali, considerati eversivi rispetto al perbenismo della classe dominante, ebbero un certo successo.
Rosina dammela era il tormentone di ogni sera: i vecchi frequentatori invidiavano la nostra gioventù e guardavano con malizia la nostra promiscuità; noi ragazzi ammiccavamo in modo da far intendere ai vecchi la nostra libertà sessuale e alle ragazze le nostre aspirazioni; le ragazze, orgogliose custodi dell’oggetto del desiderio, cantavano a squarciagola e ridevano concedendo generosamente e indistintamente a tutti la loro allegria, e solo quella.
Un quarto d’ora prima della chiusura la Zia ci dava il preavviso e si rifiutava di servire da bere; poi cominciava a sfrattare i singoli avventori e qualcuno fra i meno abituali se ne andava veramente; poi, per un quarto d’ora, se ne stava con la scopa in mano sulla porta a sollecitare i tiratardi; e a lagnarsi, a dire che non voleva perdere la licenza per quattro lazzaroni, che aveva il marito invalido e quattro figli da mantenere, che i questurini l’avevano già avvertita di rispettare gli orari e di non dar da bere alle teste calde che poi potevano combinare guai. Poi si stufava dei nostri sberleffi, posava la scopa, chiudeva la porta di legno e la controporta di vetro, reinfilava il grembiule e tornava dietro il bancone.
Noi, per gratitudine ordinavamo uno spuntino notturno ed un fiasco collettivo, abbassavamo la voce, ci radunavamo attorno al tavolo più lontano dalla strada e ci crogiolavamo nell’intimità dei congiurati.
Qualcuno senza parlare capovolgeva le sedie sui tavoli liberi.
Se si aveva ancora voglia di cantare si intonava di nuovo Fischia il vento, o la accorata Addio Lugano bella che raccontava la cacciata degli anarchici dalla Svizzera, terra di libertà. Cantate a fil di voce, queste canzoni struggenti conservavano integro il pathos e acquisivano un valore aggiunto per l’esecuzione clandestina.

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