mercoledì 7 ottobre 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (11): cinema

Il cinema, come i libri, può essere - ed inizialmente lo fu - un surrogato della vita. Poi, come i libri può diventare - ed io credo che per me lo divenne - un alimento dell’anima, una emozione non surrogata, un sogno pronto suscitabile a comando.

Mi piace pensare che il mio amore per il cinema sia nato negli anni cinquanta quando, da bambino, vidi Il ladro di Bagdad (quello del 1940, prodotto dai fratelli Korda). La proiezione si teneva in una saletta presso le suore, prima che costruissero in paese il Cinema Teatro parrocchiale. Era un pomeriggio d’estate. La saletta era affollata, afosa, male oscurata. Le immagini traballavano su un muro imbiancato. Il sonoro era gracchiante. Le voci, i suoni, le musiche, i rumori si mescolavano al brusio e alla confusione dello stanzone stipato. Eppure il fascino della storia era ammaliante, le immagini affascinanti, la fantasia magica e seducente. Nulla mi poteva distrarre: i ragazzini che si muovevano, i bambini che piangevano e volevano uscire, la luce che irrompeva ogni volta che si apriva una porta, gli odori, la pellicola che si inceppava, i lunghi intervalli per il cambio del rullo, il venditore di farina di castagne, i commenti di chi si annoiava, gli scherzi stupidi dei compagni distratti, il rumore delle sedie di legno smosse, le sagome di chi si alzava davanti e passava sotto lo schermo, …

Ricordo ancora con viva emozione tutta la storia dell’avventuroso viaggio del ladruncolo Abu, le navi, le città con minareti e palazzi, il sultano con la sua bella figlia, il giovane principe; ricordo il Genio imprigionato nella bottiglia sulla spiaggia e la sua liberazione col filo di fumo che sfiatava dalla bottiglia a formare il gigantesco Demone e l’astuzia di Abu che lo imbroglia e lo imbottiglia di nuovo e poi lo libera in cambio della promessa di aver realizzati tre desideri, il volo sulle spalle del Genio con Abu aggrappato ai capelli; ricordo l’episodio del furto del magico occhio di smeraldo della dea (la prima “tele-visione”!), l’ingresso nel tempio esotico pieno di tranelli e difeso da feroci indigeni, la mastodontica statua della dea con sei braccia, la pericolosa arrampicata all’interno della statua e lotta col mostruoso ragno; ricordo le insidie, i viaggi per mari e monti in equilibrio sul tappeto volante, le magie, la battaglia finale, gli amori, la folla plaudente, …

Vidi il film - mi pare di ricordare - due volte di seguito, eludendo la sorveglianza del prete che faceva svuotare la sala al termine della prima proiezione. E poi lo rividi altre mille volte nella mia fantasia, con tutti i dettagli, i trucchi, le fantastiche trovate, le battute, i colori, le paure, i voli, …

Ne parlavo estasiato con chi lo aveva visto per rivivere e condividere le emozioni (ma mi pare di ricordare che nessuno manifestasse un entusiasmo così acceso), lo raccontavo a chi non aveva avuto la fortuna di vederlo per comunicare a tutti la mia esaltazione (ma mi pare di ricordare facce stupite e preoccupate per una eccitazione troppo euforica).

In quegli anni il cinema furoreggiava: il piccolo schermo agli esordi non aveva ancora sbaragliato il grande schermo, come poi avvenne. In tutti i paesi, anche quelli più sperduti, i preti organizzavano proiezioni, non necessariamente di film edificanti, in locali di fortuna. In tutti i paesi, anche i più poveri, sorse nel giro di un decennio la Sala Cinema-Teatro, quasi sempre su un terreno donato da un nobile o da un ricco possidente, sempre costruita con il contributo in denaro e di braccia dei fedeli. Paese grande, sala sontuosa, con schermo ben teso, palco per le rappresentazioni teatrali, sipario di velluto rosso, illuminazione moderna con fari e faretti, applique a spegnimento graduale, pannelli insonorizzanti alle pareti, soffitto a scalare, sala di proiezione chiusa, file di poltrone in velluto, uscite di sicurezza, bar all’ingresso, bancone per la biglietteria. Paese piccolo, sala piccola, con gradinate di cemento a vista e sedie di legno scricchiolanti, muri male intonacati, illuminazione scarsa, sgabuzzino del protezionista aperto; all’ingresso un tavolo che serviva da biglietteria e da spaccio, ingombro di vasi di vetro pieni di caramelle, di scatole con allineati i neri bastoncini di liquirizia, di boccettini di rosolio, di sacchetti di farina di castagne; sotto il tavolo una cassetta di bottigliette di gazzosa e di

Al mio paese costruirono una sala pretenziosa, da paese ricco, in un area nella quale dovevano trovar posto due campi sportivi, uno di calcio e uno di tamburello, ed un enorme edificio che doveva ospitare il bar ACLI, le aule per il catechismo e la casa del curato.

La raccolta di offerte fu organizzata con grande enfasi: le cassette per le oblazioni furono collocate nelle tre chiese del paese, all’oratorio maschile, all’oratorio femminile, all’asilo; fu allestito sul sagrato un enorme cartellone col grafico dell’andamento della colletta accanto a quello che raffigurava lo stato dei lavori. L’impresa non aveva mai fine, le spese aumentavano, gli introiti ristagnavano; il prete nelle sue omelie batteva cassa, il popolo nicchiava.

Nel frattempo le proiezioni, programmate a spron battuto anche per pagare i debiti della grande opera, venivano effettuate in uno stanzone presso le suore (che gestivano asilo, oratorio femminile e ricovero) o - in estate - in una cascina al centro del paese sede provvisoria dell’oratorio maschile.

In una di quelle estati (i lavori durarono alcuni anni) mio padre fu reclutato per vendere i biglietti alle proiezioni all’aperto. La biglietteria era stata allestita aprendo una finestrella ad arco nel pesante portone sbarrato della cascina; l’accesso al cortile era venti metri più in là, attraverso una porticina laterale. I bigliettai erano due: uno dietro la minuscola finestra vendeva i biglietti, l’altro sulla porticina li controllava, li strappava e faceva passare. Quando mio padre era sulla porticina passavo gratis; quando mio padre era a vendere i biglietti, non sempre riuscivo ad entrare: ogni tanto era di turno un inflessibile pidocchioso che mi ricacciava indietro. Tornavo allora al portone, amareggiato ma fiducioso nell’autorità paterna: mio padre, che non voleva chiedere favori agli stronzi, infilava le lunghe braccia nella finestrella, si sporgeva all’esterno, mi prendeva le spalle, mi sollevava e mi tirava dentro: mi infilavo come un topo nella tana, felice come una pasqua, e correvo a sedermi in prima fila davanti al lenzuolo candido a contemplare i nugoli di falene ubriache e gli sciami di zanzare che si addensavano sotto i fasci di luce dei riflettori.



Negli anni sessanta ho poi amato, come molti aspiranti intellettuali di allora, i registi che avrei ancora amato in seguito: Bergman con i suoi primi film in bianco e nero (Il posto delle fragole, Il settimo sigillo, Il volto, Il silenzio,…), conturbanti, terribili, apocalittici, intensi, onirici, freddi; Buñuel per i film surrealisti degli anni ’30 (Un chien andalou, L’âge d’or) e per quelli successivi (Nazarin, Viridiana, L’angelo sterminatore, Bella di giorno) nei quali esprime le sue caustiche ossessioni dissacratorie.
Ho amato Fellini per il suo triste e poetico La strada, per lo struggente Le notti di Cabiria, per l’intrigante e angosciante La dolce vita; ho amato Visconti per i cupi Ossessione e Senso, per l’epico Rocco e i suoi fratelli, per Il gattopardo, colossal risorgimentale.
Ho amato Truffaut per Quattrocento colpi nel quale vedevo rispecchiata in certi aspetti la mia storia, per l’inquieto e triste Jules e Jim, per La calda amante, per l’amatissimo Fahrenheit 451 che raccontava la mia passione per i libri e per la libertà; ho amato Godard per il suo tragico Fino all’ultimo respiro, per lo sconcertante Il bandito delle ore 11, per il presessantottesco La cinese, per l’amarissimo Week-end - Un uomo e una donna dal sabato alla domenica che racconta in modo spietatamente freddo e meticoloso un assurdo, orribilmente borghese, consuetudinario fine settimana.
Ho amato Antonioni per Il grido, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso nei quali la rappresentazione del vuoto esistenziale, della impossibilità ad uscirne, della assurdità delle situazioni, della incapacità di comunicare sono resi con glaciale lucidità, con agghiacciante disincanto, con terribile rassegnazione; e per Blow-up nel quale aggiunge alla miscela deflagrante dei primi film il dubbio che anche la realtà che appare evidente e incontrovertibile sia in fin dei conti inspiegabilmente illusoria.
Ho amato Risi, in particolare Il sorpasso (in cui mi immedesimavo nell’oblomoviano Trintignan) e Una vita difficile con la storia della squallida deriva di un ex-partigiano; e Rosi per il westerniano Salvatore Giuliano, per lo spietato antidemocristiano Mani sulla città, per lo sconvolgente Uomini contro; e Pietrangeli, per l’indimenticabile e amaro La visita.
Ho amato il primo Pasolini per i suoi epici e candidi, violenti e poetici film ambientati nella periferia di Roma (Accattone, Mamma Roma, La ricotta),così vicini ai suoi primi libri, per il suo fervido, dolce e veramente cristiano Il Vangelo secondo Matteo, per le sue cupe, grottesche e incomprensibili trasposizioni cinematografiche di tragedie greche(Edipo re e Medea).
Ho amato Hitchcock per la ingegnosa perfezione dei suoi intrighi e ancora di più per la genialità del suo linguaggio.
Ho amato Kubrick fin dai suoi primi film, Rapina a mano armata, col suo complesso e perfetto meccanismo narrativo e stilistico, e i due film antimilitaristi diversissimi fra loro, geniali ed efficaci in diverso modo Orizzonti di gloria e Il dottor Stranamore.
Di Marco Bellocchio ho amato in modo particolare il film d’esordio, Pugni in tasca, del ’65, uno dei più conturbanti film mai visti che racconta la storia della sorda e feroce ribellione di un bravo ragazzo della provincia piacentina all’educazione perbenista e della sua famiglia piccolo-borghese, una famiglia asfissiante che va incontro alla dissoluzione, in tutti i sensi. Nel ’64, a Bobbio, ho assistito ad alcune riprese del film e ho conosciuto uno dei coprotagonisti, il ragazzo poliomielitico, e due delle comparse, le suorine graziose che assistono al funerale premonitore che apre il film.
Ho amato Ferreri, il graffiante, irriverente, grottesco Ferreri nell’agghiacciante antifamilista Ape regina, e nello sgradevole La donna scimmia con un avido, repellente e splendido Tognazzi ed una angosciante Girardot.
Ho amato Kurosawa: il cupo e complicato, quasi pirandelliano Rashomon con le sue mille verità; il triste e intenso Vivere che racconta l’ultima buona azione di un arido e inerte burocrate; l’epico I sette samurai, con il confronto fra la cultura contadine e quella militare, gli icastici ritratti dei sette mercenari, gli scontri, gli agguati.
Vedevo i film di questi registi in compagnia degli amici intellettuali di città, in prima visione; rivedevo quelli meno recenti in alcune piccole sale specializzate in film d’autore; mi godevo le retrospettive con dibattito nei cineforum organizzati dal Circolo del Cinema o da curati progressisti di oratori periferici.
Ma non disdegnavo i film “commerciali”, di consumo, che vedevo con gli amici di paese, quelli con i quali passavo ore a giocare a carte o a chiacchierare di futilità, gli stessi che di tanto in tanto organizzavano trasferte a Bagnolo, un paesone della bassa, per vedere quel che passava il convento, senza pretese. Se il film non era soddisfacente - e questo capitava spesso - ci rifacevamo con una gara di critiche salaci a schermo acceso e luci spente, con commenti grevi a voce alta, sottolineature dissacranti, pernacchie e commenti, battute fuori campo, come se fossimo al varietà, in presenza di autori e attori.
E per finire in gloria la serata, lungo la strada del ritorno, sghignazzando e cantando in sei per automobile, facevamo una deviazione notturna sui colli a mangiucchiare qualcosa nelle osterie perse fra le vigne e a scolarci qualche bicchiere di quel nostro vino, un rosso corposo di grezza fattura e di infallibile efficacia.







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