sabato 5 settembre 2009

1964: PANE E MORTADELLA

... Una sera incontrai davanti al salumiere la morettina che avevo soccorso durante lo scritto di matematica. La riconobbi, con qualche incertezza, dalla spettinatura. Era però meno pallida del giorno dell'esame, e soprattutto meno disperata.
Mi identificò subito e mi sorrise con riconoscenza. Ci presentammo, con una civilissima stretta di mano, appena un po’ trattenuta, la sua, morbida e poco vigorosa. Feci un tratto di strada con lei.
Si chiamava Franca, era della provincia di Pistoia, aveva una camera presso una vedova sopra il barbiere, aveva vent’anni, compiuti in maggio, voleva fare l’infermiera, la sera giocava a carte con la vedova, poi studiava o guardava la televisione.
La sua chiacchierata era un po’ prolissa e noiosa ma aveva un sapore diverso, gustoso per l’accento toscano, vivido come i suoi occhietti neri e mobili, gradevole come l’odore gradevolissimo di mortadella che usciva dal cartoccio che mi sventolava sotto il naso.
Ci fermammo sotto la casa dove aveva preso alloggio. Mi guardava con negli occhi una dose di riconoscenza che mi pareva eccessiva se riferita ai sussurrati suggerimenti del giorno dell’esame. La guardavo con un moto di simpatia e con una voglia di piacerle che mi risultava diversa da quella che sprecavo con altre.
Improvvisamente Franca si ricordò che aveva un appuntamento telefonico, si scusò, mi chiese di aspettarla venti minuti che sarebbe tornata, mi lanciò un “ciao” concitato, fece due passi, si girò, tornò indietro, mi disse un altro “ciao” sventolandomi la mano davanti agli occhi. Poi, siccome la fissavo con un’aria vagamente stordita senza parlare e senza muovermi, mi diede un velocissimo bacio sulla guancia, restò un istante in attesa di una reazione, scrollò le spalle imbarazzata, si girò, attraversò la strada e si infilò in un piccolo portone di legno e lo richiuse immediatamente alle sue spalle.
La rincorsi, bussai, la chiamai. Aprì quasi subito e, attraverso lo spiraglio, scosse la testa con un’aria di compiacente commiserazione.
Le dissi che non avevo capito. Mi chiese che cosa non avessi capito.
Le dissi che non avevo capito la faccenda dei venti minuti.
Mi guardò con dolcezza con quei suoi occhi neri da berbera, continuò a scuotere la testa con ostentata pazienza e - parlando lentamente, spiccando e distanziando bene le parole come quando ci si rivolge ad un ritardato mentale - mi disse che, se mi andava, potevo aspettarla venti minuti, lì sotto, senza muovermi, che poi lei - venti minuti, anche meno - si sarebbe liberata, sarebbe scesa, mi avrebbe raggiunto e avremmo potuto chiacchierare tranquilli, anche tutta la sera, fino a tardi.
Contemplò un attimo la mia reazione, assente e attonita, ticchettò con l’indice la mia fronte per riattivare le mie funzioni cerebrali e per invitarmi a togliere la testa dai battenti, poi con tenera malizia, alzandosi sulla punta dei piedi infilò lei la testa nello spiraglio della porta e mi diede un bacio sulle labbra, un velocissimo bacio leggero, delicato, breve, morbido, dolce, tenerissimo.
Mi richiuse la porta in faccia, con precauzione.
Con gli occhi fissi sul maniglione vissi i venti minuti più lunghi della mia vita.
In venti minuti il portone si aprì più volte: il numero dei campanelli mi diceva che in quel casamento abitavano soltanto otto famiglie che, a giudicare dal viavai intenso, dovevano essere famiglie numerose o, se non altro, irrequiete.
Puntuale Franca riapparve, con un vestito bianco orlato di pizzi e un’aria confusa e sorridente.
Mi venne in mente che avrei desiderato ripartire da dove eravamo rimasti, ristabilire immediatamente le posizioni di venti minuti prima, labbra contro labbra, respiro caldo e tenera delizia, ma Franca si guardò intorno con cautela, alzò gli occhi verso le finestre del casamento, mi disse di seguirla e si avviò a passo sostenuto lungo la discesa che portava alla piazza.
La inseguii, la raggiunsi, mi affiancai e tenni il passo.
Aveva al collo una borsetta di iuta e un mano un sacchetto di carta.
Attraversammo la piazza, scendemmo verso il fiume, raggiungemmo il ponte, uno splendido ponte medievale sorretto da diverse arcate irregolari - di diversa altezza e di diversa ampiezza - che gli conferivano uno strano profilo ondulato di una eleganza strepitosa ma di una funzionalità pessima, considerata la gibbosità della strada che lo percorreva.
Sullo slargo davanti all’imbocco del ponte c’era una panchina ed una fontanella.
Franca si accomodò sulla panchina, mi fece cenno di sedermi, aprì il cartoccio, vi infilò una mano e … “Voila!” estrasse trionfante un panino con la mortadella incartato in un tovagliolo giallo.
Con l’altra mano estrasse un secondo panino, lanciando un secondo “Voila!”, come un prestigiatore; fece un piccolo applauso sbattendo i panini fra di loro, me li mise sotto il naso appaiati e mi invitò a sceglierne uno.
Le presi le due mani imbottite, le allargai come ad aprire i battenti di una finestra e ci infilai la testa a cercare il morbido sapore delle sue labbra. Si mosse, incontrai con le mie labbra il suo naso, ridemmo, mi prese le guance fra i panini, mi baciò come aveva fatto sotto il portone, velocissima, delicata, dolce.
Restituii il bacio, lesto come il suo. Me lo ritornò.
Si rideva.
Fu una mitragliata di baci, dati e restituiti rapidamente. Baci superficiali, allegri, strepitosamente teneri, giocosi e gioiosi, senza pathos, senza eros, senza affanni.
Mangiammo i nostri panini, intercalando i morsi con sorsate di chinotto e bacetti odorosi di mortadella. Poi ci avviammo sul ponte, sotto la luce incerta e giallognola dei rari lampioni.
A metà del ponte, sul colmo dell’arcata, mi sedetti sul muretto, girando le spalle al fiume che gorgogliava sul largo greto. Franca si sedette accanto a me.
Ascoltammo per un po’ i rumori dell’acqua.
Ascoltammo delle voci lontane, dei richiami.
Ascoltammo i rumori delle moto che imboccavano la salita dietro l’abbazia.
Ascoltammo la brezza che saliva dal fiume, fresca e piacevole.
Ascoltammo il calore che emanava dal punto di contatto fra i nostri gomiti.
Mi accostai, cercando un contatto più esteso.
Franca scese dal muretto, mi si mise di fronte, mi abbracciò, appoggiando la guancia al mio petto.
I suoi capelli odoravano di fumo di sigaretta, riconobbi le Peer, una marca inglese diffusa fra le signorinette bene. Glielo dissi sottovoce, teneramente. Lei mi disse che il mio giubbino odorava di Clan, il tabacco da pipa che avevo in tasca, diffuso fra gli intellettualini di sinistra. Cominciammo ad annusarci ridendo: le maniche, le mani, il collo, la faccia, le ascelle, le orecchie, gli occhi, le guance, la bocca.
Ricominciò il gioco dei baci. Meno veloci, ancora incerti. Meno scherzosi e più teneri.
Si arrestò il fiume, calò la brezza, si spensero le voci e i rumori, si fermò l’universo.
Continuò il gioco dei baci, sempre più affannati, caldi, fantastici.
Venne l’ora del coprifuoco.
Tornammo allacciati, fermandoci ogni tre passi.
Cercando le ombre, gli angoli, i portoni.
Spinti dall’ora, riluttanti verso il convitto che stava per chiudere, come si ci attendesse la galera, la separazione eterna, il patibolo.
Quella notte - il giorno dopo mi attendeva un altro esame - la passai alla finestra, guardando il profilo gibboso del lungo ponte medioevale, con le labbra arrossate, la testa arroventata, il cuore in subbuglio.
Il giorno dopo, nel corridoio della scuola, una ragazza mi passò un biglietto.
Su un piccolo foglietto a quadretti c’era scritto, in stampato maiuscolo: “Scusami. Oggi arriva il mio fidanzato e resta con me fino alla fine degli esami. Ci sposiamo a settembre. Non ti dimenticherò mai…”.
In fondo al breve messaggio, al posto della firma, c’era l’impronta delle sue labbra, un bacio stampato col rossetto.
Non so cosa mi offese di più, se la mia prima cocente delusione d’amore o quello stupido modo di siglare uno stupido biglietto.

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