lunedì 1 giugno 2009

1955 - I GIOCHI (parte 2) : il ciàncol

Il ciàncol, così noi chiamavamo la toscana lippa, era l’altro gioco di squadra che, quando improvvisamente cominciava, contagiava in pochi giorni tutto il paese e durava settimane.

Se non venivano scovate le mazze dell’anno prima - belle, stagionate e perfettamente bilanciate, leggere e maneggevoli, lucide dalla parte del manico e spelacchiate in punta - si partiva alla ricerca del ramo giusto per farne di nuove.
Il legno adatto lo trovavamo abbondante lungo le rive dei fossi fra i campi. La maggioranza di noi preferiva però il legno di castano che trovavamo nel fitto bosco che copriva la ripida pendice del colle dietro la chiesa.
Arrivavamo in gruppo al limitare del bosco e poi, dopo uno sguardo panoramico sul fronte degli alberi, cercavamo i varchi fra i rovi e ci sparpagliavamo nel fitto della macchia.

La ricerca del ramo giusto era, per me come per tutti, un rito che doveva essere consumato in solitudine.
Ricordo ancora il silenzio rotto appena dal crepitare dei passi, dal frullare di qualche uccello, dallo stormire dei rami; e la luce che filtrava tra i rami, il tremolare delle ombre, le chiazze di sole sulle foglie secche, le mille sfumature cromatiche; e l’aria ferma come il tempo.
Cercavo il mio ramo interrogando il bosco, indagatore indeciso, esploratore perso, rabdomante disarmato.
Il ramo perfetto era lì in attesa di essere scoperto e mi sentiva arrivare e mi vedeva passare e mi chiamava senza voce.
Non dovevo sbagliare, non potevo tradirlo.
Prima lo percepivo e poi lo avvistavo improvvisamente davanti a me, bello, dritto, delle dimensione giusta per la mia mano, con un settore di perfetta misura senza diramazioni e nodi nascosti, con la sua scorza bruna e lucida.
Mi avvicinavo, lo esaminavo in silenzio, ne saggiavo la consistenza e la rigidità e poi, col temperino a serramanico, cominciavo ad segnare il punto di taglio sulla corteccia e a incidere tutto intorno il legno per spezzare il ramo senza guastarne l’integrità.
Una legge interiore ci vietava di tagliare più di un ramo.
Sfrondavo subito il mio ramo e lo sezionavo di giusta misura, ritagliando almeno due pezzi corti per le lippe ed uno più lungo per la mazza.
Lasciavo gli scarti - un gran frascame di fronde, ramoscelli e foglie - ai piedi dell’albero, come dovuto risarcimento alle mutilazioni.
Poi, accoccolato all’ombra, smussavo e acuminavo accuratamente le due estremità dei pezzi corti, badando che le punte non fossero né troppo corte, difficili da colpire, né troppo lunghe, fragili alle mazzate; e rifinivo il bastone, spelandolo per bene e lasciando sulla impugnatura la corteccia che poi veniva decorata con intagli geometrici per ragioni estetiche e funzionali.

Alla fine ci si riuniva ai margini del bosco, in attesa che emergessero dal folto tutti gli amici.
Ci si mostrava a vicenda il prodotto e ci si avviava verso il primo spiazzo per collaudarne l’efficienza.

Il gioco era semplice.
Individuato uno spiazzo adatto, libero da ostacoli e adeguatamente lontano dalle case e dalle loro fragilissime finestre, si tracciava un cerchio per terra (la casa); il battitore si metteva al centro del cerchio, tutti gli altri si disponevano intorno ad una certa distanza (variabile in rapporto all’abilità del battitore).
Il gioco iniziava col battitore che lanciava in aria il ciàncol e cercava di colpirlo al volo scaraventandolo il più lontano possibile: se uno degli avversari disposti in giro per lo spiazzo riusciva a prendere il ciàncol al volo, rimpiazzava il battitore e la partita ricominciava; se nessuno acchiappava il ciàncol, il giocatore più vicino al punto in cui il ciàncol era caduto, lanciava verso il battitore il tronchetto appuntito cercando di farlo cadere nel cerchio.
A questo punto le ipotesi erano due: se il lanciatore centrava il cerchio ed il ciàncol si fermava dentro la circonferenza tracciata, il gioco ricominciava a parti invertite; se invece il ciàncol cadeva fuori del cerchio o se veniva respinto al volo, il battitore-difensore acquisiva il diritto di colpire il ciàncol altre tre volte per scaraventarlo il più lontano possibile (facendolo saltare con precisi colpi sulla punta e colpendolo al volo con una potente mazzata).

La distanza che separava il ciàncol dal cerchio dopo i tre tiri, misurata in canèle, determinava il punteggio.
Per non essere costretti a misurare la distanza col bastone, il battitore poteva “sparare” un numero: se l’avversario approvava, il punteggio era attribuito; se l’avversario disapprovava e dichiarava una distanza minore, si poteva andare al “tira e molla”, e si apriva una accanita trattativa per patteggiare distanza e punteggio; se non si trovava una mediazione si procedeva alla misurazione.
Poiché la misurazione era faticosa, avevamo stabilito una regola supplementare per punire i battitori tignosi e incontentabili: quando la distanza da loro dichiarata era esatta o inferiore a quella misurata, il punteggio “chiamato” veniva attribuito; se invece era inferiore, il battitore rognoso veniva punito della sua avidità con zero punti.
La “mano” proseguiva a ruoli invertiti.

Per giocare a ciàncol ci voleva polso fermo, mira precisa, potenza, astuzia, occhio di falco, equilibrio, competenza geometrica e fortuna.
Non era facile far saltare il ciàncol ben dritto per colpirlo al volo, non era facile colpirlo in pieno quando roteava nell’aria come un’elica, non era facile centralo quando l’avversario te lo lanciava, teso o a parabola, con effetti particolari; non era facile lanciarlo cercando traiettorie ingannevoli e imprimendogli rotazioni traditrici; ed era facile invece compiere errori di valutazione della distanza e perdere i punti.

Le ore che non si passavano a giocare le consumavamo in solitari addestramenti, facendo a pezzi dozzine di ciàncol (quelli svergoli di allenamento, non quelli perfetti da gara), rompendo mazze, schiantando vetri.


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