giovedì 14 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (1): la rivolta a Brescia

Il mio ’68 è cominciato nel novembre del 1967.
Era appena iniziato il terzo anno accademico. Le matricole si stavano acclimatando. Noi “vecchi”, rivestiti i panni dei goliardi vissuti, ci accingevamo a far da balie ai nuovi arrivi, incerti fra l’istinto naturale di protezione e quello di prevaricazione consentito, anzi quasi imposto, dalla tradizione. Giunse da Milano la notizia che, per noi della Cattolica, le tasse di frequenza erano aumentate del 50%. La sorpresa ci fece passare la voglia di festa: noi pellegrinanti di Via Trieste provenivamo quasi tutti da modeste famiglie di operai, artigiani, piccoli commercianti, impiegati dello stato, insegnanti. Ci stringeva il cuore, ci disorientava e ci faceva montare la rabbia il pensiero di tornare a casa con una notizia che avrebbe fatto vacillare l’economia familiare e avrebbe soprattutto messo in crisi la voglia di riscatto che spingeva molti dei nostri genitori a svenarsi per vedere un figlio laureato. Consideravamo inoltre vergognosamente immorale, poco evangelico, un provvedimento che faceva della Cattolica l’università più cara d’Italia, e la più elitaria, la più esclusiva, la più classista. Sempre da Milano giunse la notizia che alcune centinaia di studenti, dopo una assemblea incandescente, avevano deciso di “trattenersi” in università; e che il rettore, dopo un estenuante ed inutile trattativa, sconfitto nel confronto oratorio, aveva chiamato la polizia; e gli studenti, nella notte del 17 novembre, erano stati, di peso, portati fuori dall’ateneo. Gli espulsi, con migliaia di studenti di tutte le università e di molte scuole superiori, avevano immediatamente formato cortei di protesta, erano confluiti in piazza Duomo, l’avevano occupata e avevano fatto il pieno di gioia di esserci e di propositi di rivincita. La consapevolezza di stare dalla parte della ragione e il senso di potenza dato dal numero avrebbero reso inarrestabile la voglia di giustizia di quella massa, ancora disunita ed eterogenea, disorientata e disorganizzata, più goliardica che politicizzata. Nelle brumose mattine che seguirono ci trovavamo nell’atrio della nostra facoltà, un po' col complesso di inferiorità dei provinciali, a commentare i fatti, a rammaricarci di non essere a Milano e a discutere sul da farsi. Fermavamo tutti quelli che entravano per informarli di quanto stava accadendo. Si creò un incerto assembramento. Suonò una campanella e dall’alto delle scale due bidelli ci invitarono a salire nelle aule per l’inizio delle lezioni. Il loro tono tranquillo, il loro richiamo fastidiosamente uguale a quello degli altri giorni ci parve provocatorio. Qualcuno suggerì che sarebbe stato meglio non muoversi dall’atrio, che era necessario esprimere in qualche modo il nostro disappunto per gli avvenimenti di Milano e la nostra solidarietà per le vittime pacifiche della brutalità della polizia; un altro lanciò l'idea che avremmo dovuto intercettare i professori per chiedere chiarimenti e cercare la loro comprensione; una ragazza disse che forse potevamo scrivere al rettore, stendere un documento di protesta da mandare al sindaco, ai partiti, ai giornali. La folla si addensava, il brusio aumentava. Dalla sala di studio, dalla biblioteca e dalle aule arrivarono altri studenti. Un secondo suono di campana provocò un incerto sommovimento; un secondo invito dei bidelli fece crescere il brusio indistinto. Quando il bidello più anziano, che comandava più di un prefetto, ci urlò con voce alterata per sovrastare la confusione di tornare nelle aule o di andarcene a spasso, qualcuno protetto dall’anonimato osò rispondergli “Vai a cagare!”. Ci furono risate e applausi. I bidelli ripiegarono indispettiti. Così, con questa concretezza padana, si espresse il primo movimento di rivolta; così cominciò la mobilitazione a Brescia, mentre a Milano gli studenti occupavano la piazza, sei mesi prima del maggio francese. Quella sera incontrai fuori dal portone due reporter de La Notte, popolare giornale di Milano che usciva nel tardo pomeriggio. Il cronista intervistava gli studenti di passaggio raccogliendo in un modo un po’ arruffato notizie, impressioni, dichiarazioni, propositi e sentenze; il fotografo fotografava con accurata professionalità gli intervistati, con un occhio di preferenza per le belle ragazze. Rilasciai una sconsolata dichiarazione di denuncia contro la selezione classista operata nell’ateneo in cui, tradendo lo spirito evangelico, il reddito contava più del merito e il contenuto delle tasche aveva maggior considerazione di quello della scatola cranica. La sera dopo sulla pagina dedicata a Brescia apparve un articolo a sei colonne, sormontato da un titolo infuocato e accompagnato da sei foto “segnaletiche” fra le quali, al bar del paese, con grande stupore e conseguente clamore, riconobbero la mia. Decidemmo di stilare un documento nel quale riassumevamo in maniera sintetica le nostre proteste. La stesura del nostro primo proclama fu laboriosa. Il gruppo di volontari-delegati non riusciva a mettersi d’accordo su niente: erano in discussione i destinatari della missiva, i contenuti, la forma, la lunghezza del documento, il tono, il logo, i firmatari. Per quanto riguarda i destinatari, dopo averne steso una lista infinita, da tutti ritenuta eccessiva, non si trovava l’accordo su chi escludere fra il rettore e il preside di facoltà (“non madiamogliela: se la leggano sui giornali!”), i professori, il sindaco, il prefetto, gli assessori alla pubblica istruzione, il provveditore agli studi, i sindacati, i partiti, i giornali locali e nazionali, il vescovo (trattandosi di Cattolica). Alla fine prevalse l’opinione di chi proponeva che la nota dovesse essere indirizzata esclusivamente al rettore, senza l’appellativo di “Magnifico”, purché fosse aperta, come quella del prete Milani ai cappellani militari che avevano definiti vili gli obiettori di coscienza (quella che sosteneva che “l'obbedienza non è più una virtù...”). E fu deciso di distribuirla sul portone dell’università, all’uscita di tutte le scuole superiori, fuori dalle fabbriche, davanti alla stazione dei treni e degli autobus, sul corso. Per quanto riguardava il contenuto e la lunghezza del documento, la discussione era fra chi voleva predisporre venti righe, affrontando il problema concreto delle tasse, e chi invece voleva espandersi ed elencare le disfunzioni, lamentare inadeguatezze, stigmatizzare il sadismo dei professori, rappresentare i disagi dei lavoratori-studenti, infarcendo il tutto con le necessarie considerazioni politiche (“Il problema non è meramente economico, … l’hic et nunc preclude una visione globale,… apriamoci a considerazioni meno grette,… non sprechiamo l’occasione,…”). Quanto al tono, si discuteva se dovesse essere freddo e formale, o perentorio e intransigente, o ironico e sprezzante, o cortese e interlocutorio, o perorante e ossequioso. All'intestazione e al logo rinunciammo dopo una breve disputa, anche perchè lo sfiancamento delle discussioni precedenti e la euforia dataci dal clima di rivolta ci avevano portato a partorire simboli assurdi, slogan inconcepibili e denominazioni grottesche (fra le altre, in sintonia con l’invito rivolto al bidello quel pomeriggio, avevo proposto goliardicamente la creazione del C.U.L.O. inteso come Comitato degli Universitari della Lombardia Orientale). Come firma in calce alla lettera, dopo un ritorno di fiamma della verve polemica dei convenuti, fu messo un sintetico e onnicomprensivo “Gli studenti di Brescia”. Uno dei presenti che non era quasi mai intervenuto nelle discussioni prese il foglio con la stesura finale del documento e ci chiese quante copie doveva farne. Decidemmo per “mille”, sembrandoci beneaugurate quel numero simbolico, garibaldino, immenso come la nostra voglia di muoverci e di assumere un ruolo di protagonisti dopo tanta obbedienza. L’amico se ne andò lasciandoci perplessi con un “Ci penso io” che lasciava intendere agganci segreti e importanti collegamenti. Il giorno dopo arrivarono non mille ma duemila volantini che però, con nostra grande delusione, formavano due pacchi non più ingombranti di una scatola di scarpe e ben rappresentavano la nostra inesperienza di rivoluzionari, la confusa incapacità organizzativa, la modesta efficacia del nostro spirito di rivolta. Ce ne contendemmo un mazzetto striminzito a testa e, a coppie, partimmo per il volantinaggio, incerti sui percorsi. Dalle autorità accademiche comunque non vennero risposte. Questo indispettì quelli che si erano illusi, esasperò gli impazienti, ringalluzzì chi aveva sostenuto la lotta dura. Da Milano arrivarono notizie più particolareggiate dei duelli verbali intercorsi fra il rettore e un certo Mario Capanna, studente cattolico del movimento studentesco; si raccontava che all’assemblea nell’aula Gemelli avevano partecipato più di mille studenti; che all’irruzione era stata opposta una comicissima resistenza passiva; che il rettore aveva disposto, con la serrata dell’ateneo, la chiusura del giornale degli studenti. A Brescia ci fu requisito il ciclostile che era stato messo a nostra disposizione per la stampa di un giornaletto goliardico (“I Cenomani”) e col quale avevamo invece stampato pochi fogli di protesta in cui chiedevamo - in cambio delle esose tasse versate - aule più spaziose, orari meno scomodi, una biblioteca più fornita e accessibile, dispense e libri meno cari, un bar interno ... e l’abolizione dell’obbligo per le femmine di indossare il mortificante grembiule nero. Per continuare la pubblicazione dei nostri documenti di protesta e di solidarietà con i milanesi, fummo costretti a ricorrere a ciclostili messi a nostra disposizione dai sindacati o da qualche partito o da associazione di sinistra, oppure a stampare i nostri fogli - clandestinamente - in qualche scuola o a ricorrere, saltuariamente, al nostro amico – quello dei duemila volantini – figlio di un tipografo. La sospensione delle lezioni a Natale determinò l’arresto dei tumulti, pacificò le rivolte e ammansì gli animi, non tanto per l’azione rasserenante della atmosfera natalizia quanto per la fisiologica sedimentazione della protesta che si determina con lo scioglimento degli assembramenti. Il rientro, difatti, fu tranquillo. Ci ritrovammo, felici di ritrovarsi. La ruotine delle lezioni riprese. Le lezioni a frequenza obbligatoria erano affollate, quelle facoltative erano in ogni caso seguita da un numero consistente di studenti. C’erano esami da preparare, passioni da seguire, amici da frequentare, amori da coltivare. A metà gennaio si sparse la notizia della espulsione di alcuni studenti dalla Cattolica di Milano. Le proteste ripresero immediatamente fiato, incandescenti a Milano, tiepide a Brescia, per la ridotta dimensione della sede, il numero esiguo dei frequentanti, la vicinanza degli interlocutori istituzionali e la loro sostanziale irrilevanza che li rendeva incolpevoli, non responsabili comunque delle decisioni che venivano prese in Largo Gemelli. Nei nostri documenti di protesta attaccavamo ferocemente gli inquisitori di Milano che rispolveravano processi e scomuniche, ma ignoravamo i nostri piccoli funzionari, riservando loro il disprezzo muto che si assegna ai servi. Fui incaricato di recuperare il ciclostile requisito che giaceva in un angolo dell'economato. Raccolsi un piccolo drappello di amici, reclutai qualche bella ragazza per dare al dissequestro una connotazione gentile, mi presentai davanti alla porta dell'ufficio della più alta carica della nostra sede staccata e bussai. Si affacciò il temutissimo economo in persona, lo stesso che ogni tanto si piazzava sul portone per respingere le ragazze che non allacciavano il grembiule per mostrare le ginocchia sotto delle gonne sempre troppo corte. Gli spiegai il motivo della visita. Mi rispose che non era autorizzato a riconsegnare il ciclostile. Gli dissi che non avevo bisogno di nessuna autorizzazione per riprendere una cosa nostra. Mi disse che aveva l'ordine di impedirci di rientrare in possesso del macchinario. Gli dissi che noi volevamo trasgredire quell'ordine e intendevamo recuperere il “nostro” ciclostile ad ogni costo e con ogni mezzo. Protestò per il sopruso. Gli dissi che aveva ragione di protestare e, scostando l'economo con gentile determinazione, mi infilai nello studio, feci sfilare il mio plotone sotto gli occhi esterefatti del funzionario, ordinai ai maschi di caricare il ciclostile impacchettato e alle femmine di non dimenticare le risme di carta ed i tubi di inchiostro. Al funzionario allibito dissi che, se voleva, poteva riferire che era stato sopraffatto da una masnada di studenti inferociti. Gli dissi anche che, se lo preferive, ero disposto a rilasciargli un verbale di dissequestro, una ricevuta, una dichiarazione, ... Non mi parve che apprezzasse la buona volontà, o la bonaria ironia, o la candida intenzione di liberarlo da grane gerarchiche. Il suo sguardo livido mi diceva che era incazzato più per i modi da presa per il culo che per il fatto. Intanto nelle altre università d’Italia la protesta montava e assumeva toni sempre più aspri: il 31 gennaio i fiorentino occuparono piazza S Marco; il 2 febbraio a Roma venne occupata “La Sapienza. Le richieste degli studenti erano concretissime, quasi corporative: si domandava la revisione delle modalità di conduzione degli esami, la calendarizzazione più ravvicinata e frequente delle sessioni, la possibilità di rifare un esame nella stessa sessione, di proporre un argomento scelto dal candidato, di discutere il voto. Sempre a Roma, gli studenti cacciati dalla loro facoltà spostarono la loro protesta in città e, a Valle Giulia, per la prima volta, non attuarono con la polizia la solita resistenza passiva ma si opposero e attaccarono i celerini. Il 7 marzo esplose la rivolta a Torino; il 15 Pisa; il 22 di nuovo Milano (dove la polizia sgombrò la Statale); tra il 25 ed il 30 ancora Milano (dove gli studenti della Statale si unirono a quelli della Cattolica che chiedevano le dimissioni del Rettore e del Consiglio di Amministrazione, tentarono di riaprire i portoni sbarrati, vennero attaccati con lacrimogeni e dispersi, si ricompattarono, organizzarono un sit-in con quattromila partecipanti in piazza Duomo, proclamarono scioperi della fame, bloccarono il traffico in centro, si scontrarono ripetutamente con la polizia...). Le notizie rimbalzavano di ateneo in ateneo e ci riempivano di orgoglio e di solidarietà di classe. A dare colore politico alla rivolta furono alcuni avvenimenti concomitanti che portarono i ragazzi di sinistra a prendere il controllo della protesta, fino a quel momento sostanzialmente interclassista. Il principale slittamento a sinistra fu provocato da gruppi di fascisti che organizzano spedizioni punitive contro i volantinaggi, si misero in testa di presidiare alcuni punti strategici delle città e, in qualche caso, si accodarono alla polizia nel disperdere crocchi di dimostranti. A dare coesione universale alla protesta contribuì l’offensiva del Tet, coi Vietcong che riuscirono a mettere in crisi il potentissimo esercito americano, attirandosi le simpatie dei pacifisti di tutto il mondo, studenti americani compresi. A rendere radicale e antisistema la ribellione fu la posizione assunta dalla magistratura che avvallando le decisioni dei rettori (serrate, espulsioni, denunce, …) e giustificando i pesanti interventi della Celere ci convinse che la giustizia non era di questo mondo e che dai padri, traditori della resistenza, non ci si poteva aspettare nulla. La protesta studentesca divenne lotta politica eversiva, pacifista, internazionalista, antiamericana e antimperialista. Diventammo tutti rossi, come i sovietici che contrastavano l’America in tutto il mondo, come i cinesi che aiutavano i poveri vietnamiti, come i rivoluzionari sudamericani che si facevano ammazzare dai sergenti addestrati dalla CIA e obbedienti a flaccidi generali golpisti. Diventammo tutti rossi, marxisti senza conoscere Marx o maoisti pur senza aver mai letto una riga di storia cinese; diventammo tutti internazionalisti. I comunisti italiani erano revisionisti, i socialisti erano controrivoluzionari, i democristiani erano fascisti, i fascisti erano semplicemente maiali. Tutti, più o meno, coltivavamo per istinto, e indipendentemente dai fatti che accadevano intorno a noi, una certa propensione romantica per la reazione radicale e la contestazione globale, spinti da ragioni anagrafiche e dalla naturale inclinazione alla controdipendenza più che da motivi storici o ideologici. La nostra voglia endemica di rivolta la ammantavamo con le più disparate argomentazioni suggeriteci dalla condizione sociale, dall’educazione, dal temperamento, dall’umore esistenziale, dalla consapevolezza, dall’orientamento politico, dall’inclinazione, dalla disposizione d’animo; influenzati nelle scelte dagli amici o dagli amori del momento, dagli occasionali modelli, eletti per alchemiche ragioni, da situazioni accidentali, da incontri fortuiti. C’era chi si ispirava vagamente al nichilismo anarchico e che era sedotto dal fascino dei coloratissimi hippy (che oltretutto praticavano la rivoluzione sessuale), chi si lasciava tentare da teorie rivoluzionarie (marxiste, leniniste, maoiste o castriste) e chi cedeva agli incantevoli richiami delle mistiche orientali e chi semplicemente riscopriva la genuinità degli utopismi evangelici. I singoli contestatori si ispiravano alle più strane filosofie, facevano riferimento a modelli eterogenei, avevano caratteri diversi e formazioni diverse, mettevano insieme una spropositata eterogeneità di riferimenti culturali. Ma trovavano la loro coesione nell’antiautoritarismo, nel mettersi cioè contro la Famiglia, la Patria e Dio; si riconoscevano nell’unità di intenti che era la voglia di uscire dal guscio, casa, paese e provincia; avevano comune il bisogno di affrancarsi dalla dipendenza, non solo economica, della famiglia e - per sicurezza - di dare una spallata anche alla società borghese. Sentivano tutti l’urgenza di chiudere con la religione dei padri (che era soprattutto quella delle madri); di cancellare e riscrivere la propria storia individuale ed un po’ anche la Storia; di buttare all’aria le carte e di stravolgere le vecchie strutture; di cambiare il modo di vestirsi e le abitudini quotidiane ma anche di disincrostare il sistema, di creare il mondo impossibile, di fondare La Città del Sole.

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