domenica 17 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (3): solidarietà

Quando da qualche parte capitava una catastrofe - alluvione, frana o terremoto - una nutrita squadra di studenti partiva a portare aiuto.
Pur non sapendo chi fossero i promotori e non conoscendo chi curasse l’organizzazione, i trasferimenti e la logistica, mi accodavo sempre ai volontari, ovunque fossero diretti. La precarietà delle mie occupazioni e la elasticità del mio programma di studio lo permettevano.
Nello zaino militare ficcavo un sacco a pelo, quattro stracci, un paio di scarponi e mi presentavo all’ora convenuta nel cortile dell’università.
Portammo aiuti nel Friuli, in Piemonte, in Macedonia.

Nel vercellese mi spaccai la schiena in una fabbrica costruita sul greto di un torrente e sommersa da una piena.
Bisognava disseppellire dal fango le macchine tessili, lavarle con acqua e pennelli per consentire i tecnici di controllare i guasti, ripararli, sostituire pezzi; poi dovevamo ingrassarle per renderle operative il più in fretta possibile per restituire il lavoro alle operaie e il profitto ai padroni.

Nel veneto mi ritrovai a spalare detriti da una scuola semidiroccata.
Si sgobbava dall’alba al tramonto fra badili e secchi, picconi e carriole. Nonostante i guanti le mani si riempirono di vesciche fin dal primo giorno. Per non perdere tempo si mangiava sul posto e in fretta, pane e mortadella, tonno e fagioli, carne in scatola. E per vincere il gelo si tracannava dal fiasco.
Solo a sera le nostre ragazze con il contributo essenziale delle donne del paese ci preparavano una marmitta di pasta asciutta, sempre stracotta, sempre gradita. Si dormiva per terra, le ragazze nel municipio, i maschi in parrocchia.
Nonostante la stanchezza, prima di dormire, ci si aggregava da qualche parte attorno ad un fuoco, come scout fuori corso, a parlare di massime questioni e minimi problemi, di princìpi primi e fini ultimi, di passioni accese e di speranze spente, di poesia e prosa, di miseria e nobiltà, di amore e disincanto, di sostanza e trascendenza.
Qualche volta si cantava: senza contrasti si dava spazio a cori di montagna e a canzonette, al gregoriano e a Celentano.
C’era sempre qualcuno con la chitarra che sussurrava le prime ballate di De André o tentava di riproporci le arie di Battisti, suggestive ma impossibili da cantare.
Ci si addormentava stravolti dalla stanchezza, traboccanti di compassione, ubriachi di malinconia. E all’alba era sempre duro aprire gli occhi su una realtà cruda che noi, con scarsa efficacia e con tenue speranza, tentavamo di modificare.

Dopo il terremoto del ‘66, partimmo in cinquanta per la Macedonia su un pullman che precedeva tre camion carichi di vestiario e di generi alimentari.
Il viaggio fu massacrante, la permanenza allucinante, l’esperienza indimenticabile.
All’andata non ci furono soste: accompagnati dalla variegata colonna sonora e dai concomitanti fetori delle gite scolastiche, si mangiava e si dormiva sul pullman che, giorno e notte, correva su strade dissestate, attraversando città e foreste, superando fiumi e colline, sotto il sole o sotto la pioggia.
Lo spettacolo tristissimo che si presentò ai nostri occhi dopo aver superato Priština modificò l’atmosfera vacanziera che regnava sul pullman e ci ammutolì: le povere case ai margini della strada dissestata si presentavano ridotte a mucchi di calcinacci, brandelli di muri, tronconi di travi; la gente si muoveva attorno alle macerie con la desolazione nei gesti e la rassegnazione negli occhi.
Ci pareva di vedere, attraverso l’inquadratura dei finestrini, un film neorealista in bianco e nero, un documentario muto sugli effetti di un bombardamento.
Fra noi, protetti nella nostra rassicurante corriera, e quei poveri sopravvissuti alla catastrofe c’era la stessa distanza che separa lo spettatore dai fantasmi dello schermo.
Come al cinema, vivevamo una condizione onirica di impotenza: le immagini scorrevano e noi non potevamo che lasciarle scorrere; ci ferivano gli occhi e noi non potevamo che guardarle con le facce incollate ai vetri; ci provocavano angoscia e noi non riuscivano a schiodarci dai nostri sedili.
La panoramica fluiva, il quadro variava, i ruderi si allontanavano. E arrivavano altre macerie più imponenti, quelle della periferia di Skopje, e altre devastazioni, altri sconvolgimenti.

Attraversando la Serbia nei giorni precedenti, ci era sembrato simpatico e allegro mostrarci e salutare dai finestrini ogni figura in movimento: uomini, donne, bambini e capre; ora nessuno si muoveva, nessuno fiatava, e avremmo voluto essere invisibili.
Guardavamo fuori, in un silenzio irreale, quel mondo irreale, ascoltando il rumore sordo del motore e il sibilo dell’aria fra gli spiragli. E la gente che si allineava ai margini della strada si fermava a guardare smarrita noi che sotto i loro occhi transitavamo irreali dietro i cristalli del pullman per svanire inutilmente all’orizzonte.

Non ci fermammo a Skopje, dove erano già arrivati aiuti da ogni parte, ma ci inerpicammo lungo le valli che portavano a Debar, sul confine albanese.
Sui tornanti dopo Gostivar non si incontrava anima viva. Solo di rado, attorno a casupole di legno in bilico fra la strada e il torrente o su ritagli di prato, si scorgevano piccole figure di vecchi, donne infagottate in abbondanti calzoni, bambini sudici senza allegria, animali nel fango.
Se, scorgendo uno zampillo d’acqua, ci fermavamo a riempire le borracce e a mangiare qualcosa, come dal nulla sbucavano donne, vecchi e bambini a spiarci, a circondarci, a guardarci in silenzio, curiosi e indecisi. Utilizzavamo i bambini per rompere il ghiaccio, offrivamo pane, caramelle, aranciata. L’anello dei curiosi rompeva gli indugi e anche gli adulti mendicavano senza falsi pudori. I bambini facevano la scarpetta nelle nostre scatolette di carne vuote; gli adulti osservavano con bonaria accondiscendenza la scena e poi requisivano le lattine da riutilizzare come gamelle.

A Debar trovammo solo rovine.
Il paese era stato abbandonato, il centro era un unico ammasso di macerie che non consentiva di individuare il tracciato delle strade e lo scheletro degli edifici.
Tutto intorno erano sorte tendopoli disordinate nelle quali i colori mimetici delle sbrindellate ed immense tende militari erano sommersi dai colori sgargianti dei panni stesi.
L’aria era irrespirabile a causa del fumo dei fornelli improvvisati e della polvere sollevata dai volontari che rimuovevano le macerie per sgomberare le strade ma anche, si diceva, in cerca di corpi da seppellire.
Parcheggiammo i nostri mezzi davanti al campo sportivo dove sorgevano le tende dei notabili ce si incaricavano dello smistamento degli aiuti.
Da non so dove si levò il nenioso e possente invito alla preghiera di un muezzin.
Il vociare ed il movimento si arrestarono.
Tutti si volsero verso di noi e si inginocchiarono.
Ci disperdemmo in un attimo, imbarazzati nel trovarci sulla traiettoria delle preghiere rituali.
Fra noi, qualcuno abbassò il capo, altri si fecero il segno della croce, altri si inginocchiarono per solidarietà, tutti girati verso La Mecca.

Sul terrapieno che circondava il campo di calcio erano allineate bancarelle con povere mercanzie.
Consumai tutti i miei quattrini per acquistare un colbacco dell’esercito di Tito, una stella rossa, decorazioni militari, monetine locali, un’ocarina bucolica e uno splendido fez bianco dall’inconfondibile (e ineliminabile) fetore pecorino.

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