giovedì 14 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (2): l'ultima festa della matricola a Brescia

Era previsto un pomeriggio per le strade del centro, con sfilata in costume; una sfida a singolar tenzone fra un guerriero Cenomane e guerrieri rappresentanti di tutti i paesi affacciati sul Mare Nostrum; una partita al pallone fra Galli transalpini e cisalpini e Romani; una serata danzante nel salone all’ultimo piano dell’Hotel Ambasciatori.

Nel primo pomeriggio il centro città e Piazza della Loggia erano a nostra disposizione, con tanto di permesso del Sindaco e del Questore.
Sfilammo, partendo dall’università lungo via Trieste. In testa al corteo avanzavano i Decurioni, io fra loro: c’era il Decurione Tridentino, quello Veronese, quello del Benaco, quello dell’Eridio, quello del Padus e il Camuno,…
Avevamo un mantello azzurro bordato d’oro e portavamo i nostri cappelli a punta ricoperti di medaglie, spille e gingilli vari.
Subito si accodò a noi un secondo corteo - meno folto, meno colorato, meno chiassoso - composto da una ventina di ragazzi, non tutti universitari, con cartelli che contestavano la sfilata, la festa della matricola e la goliardia in generale (“Gli studenti a Milano sono in galera, quelli di Brescia sono in piazza a fare i buffoni”, “I goliardi sono amici del rettore e del questore”, “Tasse + 50%: viva la festa!”, “La goliardia è morta”, …).
Sfilammo per via Mazzini, corso Zanardelli, via X Giornate, cantando le nostre canzoni, applauditi dalla folla che assiepava i portici, dalle commesse e dagli sfaccendati.
In coda al nostro corteo i sovversivi camminavano in silenzio, guardandosi attorno un po’ incerti, studiando le reazioni dei passanti che, in un primo momento, non distinguevano gli uni dagli altri.
Fra i due gruppi non ci fu contatto: molti goliardi in testa al corteo non sapevano della appendice; quelli al centro seguivano indifferenti la processione chiacchierando e godendosi la giornata di sole, la folla, i canti; i goliardi che erano in coda, a contatto con i contestatori, erano più curiosi della inattesa contestazione che della festa.
Le forze dell’ordine non sapevano cosa fare: forse per loro un corteo valeva l’altro, l’autorizzazione c’era, non si profilavano disordini, non c’erano scontri, bastava tenere sotto controllo la situazione.
Noi Decurioni, promotori della festa, fummo avvertirti di quel che succedeva alle nostre spalle quando il corteo stava sfilando nella stretta di via X Giornate. Mi liberai degli orpelli goliardici e uscii dal corteo. Dal marciapiede lasciai sfilare la parata scattando qualche fotografia. Quando arrivarono alla mia altezza i quattro gatti che manifestavano con compostezza il loro dissenso, provai per loro una immediata simpatia. Fra loro c’era un amico che era stato con me in un campo di lavoro in Belgio. Lo salutai, mi sorrise. Fotografai la sparuta schiera ed i cartelli inalberati. Poi tornai in testa al corteo che nel frattempo aveva deviato in piazza Duomo per un giro trionfale e stava tornando in via X Giornate per risalirla e sfociare in piazza Loggia.

La piazza era già piena di studenti che si erano disposti tutti attorno ad un grande rettangolo centrale transennato e sgombro. I Decurioni entrarono nella piazza e si disposero come in vetrina davanti alla Torre dell’Orologio.
I venti o trenta contestatori ci sfilarono accanto e andarono a sedersi in mezzo allo spiazzo libero davanti al portico del Monte di Pietà, ammucchiandosi stretti e circondandosi dei loro cartelli come scudi disposti a testuggine.
Noi “capi” ci raggruppammo a consulto per decidere il da farsi.
I due crocchi facevano macchia sul lastricato chiaro e assolato: il nostro colorato di manti e pennacchi, il loro grigio transennato di cartelli. Intorno la folla attendeva.
Alcuni Decurioni, in particolare un gruppo di veronesi guidati da un loro leader notoriamente fascista, volevano sgomberare il campo senza tante remore oppure farlo sgomberare dalla polizia che ai margini, dietro il pubblico, teneva d'occhio con discrezione la situazione; altri proponevano di lasciar perdere i poliziotti ma di parlamentare con gli anarchici e invitarli a spostarsi in modo da non impicciare i duelli e la partita; altri ancora - io fra loro - considerato che la protesta era composta, pacifica e legittima e visto che lo sparuto gruppo non impicciava più di tanto, proponemmo di lasciare i compagni al loro posto, di non scatenare casini, di evitare l’intervento della polizia, di non modificare il programma della festa e continuare come se niente fosse.
In fin dei conti la protesta era fatta anche nel nostro interesse (l’aumento delle tasse stava sul gozzo a tutti); molti di noi ne condividevano le ragioni; molti nei mesi passati avevano espresso in maniera più vivace, e inutile, le loro rimostranze. Non potevamo disapprovare quel gruppo isolato solo perché aveva avuto l' idea, malaugurata per l'organizzazione ma geniale dal punto di vista mediatico, di protestare il giorno della festa (“c’è un tempo per protestare e un tempo per festeggiare,…); non potevamo non ammirare il loro coraggio, anche se quell’ardimento veniva a compromettere una stupida partita al pallone (voluta dai trentini e dai veronesi, più che altro).
E poi, porca miseria, in piazza c’era posto per tutti, e non era il caso di far precipitare le cose.

La manifestazione, quella goliardica, riprese.
Un gigantesco guerriero Cenomane, una specie di Golia, con un forcone in mano occupò il centro della piazza e, agitandosi e urlando come un forsennato, sfidò gli astanti a duello. Si fecero avanti diversi guerrieri, bardati nei modi più bislacchi e uno dopo l’altro, come gli Orazi, vennero sconfitti.
Raccolsi anch’io la sfida, come da copione. Indossai un colapasta con infisse sulla calotta due corna di mucca; poi, avanzando lentamente nell’arena verso il gigante Cenomane, mi tolsi il mantello, i calzoni, la camicia, le scarpe e rimasi con un paio di mutandoni lunghi di lana dalla patta appariscente, una maglia della salute dalle maniche lunghe, una pancera sopra la maglia, le calze di lana al polpaccio e gli occhiali vistosi sotto l’elmo bovino. Lo spogliarello e la lenta avanzata erano accompagnati dalle urla, dalle risate, dagli incitamenti della folla. Estraendola dai mutandoni, sguainai una corta daga romana, mi tolsi gli occhiali e mi preparai al duello.
Il Cenomane si muoveva con grande spettacolarità, io giravo a vuoto strizzando gli occhi da miope e cercandolo a tentoni, sempre nella direzione sbagliata. Urtai qualche volta il mio nemico senza mai inquadrarlo. Girammo anche attorno al sit-in. La folla in piazza era aumentata, gli incitamenti pure. La gag durò qualche minuto, finché, per chiudere, ci affrontammo: il Cenomane lanciò un urlo disumano, io lanciai un urlo di terrore, arretrai di qualche passo, girai i tacchi e fuggii a precipizio perdendo la spada e coprendomi con l’elmo il fondoschiena.
Gli anarchici ci guardavano dalla loro posizione privilegiata, schifati per il misero spettacolo da oratorio. Qualcuno però ridacchiava.

Cominciò la partita del pallone.
Mi rivestii, recuperai la macchina fotografica e tornai in campo a fare il mio doppio reportage.
Qualche pallonata colpì il mucchio dei contestatori; qualche giocatore intollerante lanciò insulti; fra il pubblico qualcuno cominciò a fischiare; ci furono movimenti fra la folla; io mi ero avvicinato al gruppo per scattare le foto “soggettive”, dal punto di vista dei oppositori pacifisti, quando un gruppo di poliziotti oltrepassò le transenne e si mosse nella nostra direzione.
Fotografai anche i poliziotti che avanzavano. Uno, con l’aria autorevole e la faccia seria, mi disse di scostarmi.
Circondarono gli anarchici e iniziarono lo sgombero: a due a due afferravano i ragazzi per le spalle e i piedi, li sollevavano e li trasportavano oltre le transenne, sotto il portico del Monte di Pietà. Alcuni requisirono e cartelli e li ammucchiarono contro un muro.
I ragazzi espulsi, mentre ancora durava l’operazione, si alzavano, andavano a riprendersi i cartelli e tornavano in piazza, a riformare il mucchio cinque metri più in là.
Ci fu un attimo di incertezza.
I poliziotti si fecero attorno a un loro capo.
Passò un minuto.

Entrarono nella piazza due gazzelle, un camion militare e un furgone cellulare.
Un poliziotto si avvicinò ai ragazzi, strappò di mano i cartelli in malo modo e con rabbia si mise a stracciarli, ad accartocciarli e a pestarli sotto gli scarponi.
Gli altri attorniarono i recidivi.
Mi avvicinai con una macchina fotografica.
Altri si avvicinarono.
Il crocchio degli anarchici era circondato dai poliziotti, i poliziotti erano circondati dalla folla.
I poliziotti, a due a due, ricominciarono il trasloco: uno prendeva il ragazzo per i piedi, l’altro lo afferrava per i capelli, lo portavano al camion, lo scaricavano sul cassone come un sacco di granoturco, tornavano al mucchio; altri poliziotti trascinavano i recalcitranti tirandoli per i piedi, davano strattoni a quelli che si avvinghiavano per resistere, prendevano a calci quelli che non mollavano, calci nei fianchi, nelle gambe, nella schiena.
I ragazzi facevano resistenza passiva, non reagivano, si divincolavano solamente, si riparavano la testa, si tenevano i capelli, si rannicchiavano per evitare calci in pancia, incassavano in silenzio.

Tutta la piazza era nel silenzio.
Si sentiva solo il rumore degli anfibi della Celere sul selciato.
Si sentiva il rumore delle pedate e dei pugni.
Si sentiva il respiro affannato dei militari e quello ansante dei ragazzi.
Qualcuno fra gli astanti protestò.
Davanti a qualche colpo violento alcune ragazze cominciarono a dire “Basta. Smettetela!”.
Io mi misi a scattare fotografie del pestaggio.
Un graduato si rivolse minaccioso verso di noi, fissò quelli delle prime file che protestavano, allungò lo sfollagente verso quelli che cominciavano a farsi sotto e a stringere e li invitò con iroso sarcasmo a decidersi da che parte stare: “Chi è dalla loro parte - disse - si stenda a terra. Sul camion c’è posto per tutti. Un passaggio in caserma non costa niente. Una notte in guardina rinfresca le idee e calma i bollori. Via. Sgomberare. Lo spettacolo è finito!”.
“Sgomberare!” dicevano altri poliziotti spintonando la folla per aprire il varco ai loro colleghi verso il cellulare.
I facchini picchiatori continuavano il lavoro, con soddisfazione, mi parve.
Dissi a quello che pareva il capo: “Sono uno degli organizzatori della festa. Vengo in questura per la deposizione…”.
Ripetei più volte la proposta senza ottenere la sua attenzione.
Sembrava che non mi sentisse.
Continuava il suo lavoro di coordinamento sudato, stizzito, concentrato.
Comandava i colleghi con cenni ed occhiate senza parlare.
“Non ce n’è bisogno - rispose infine uno in borghese dietro di me - abbiamo quel che ci serve, grazie!”, e scomparve dietro la calca assiepata.
La piazza fu sgomberata in fretta e definitivamente.
Quattro imbecilli applaudirono la polizia che partiva coi lampeggianti accesi, senza sirene.
La folla si sciolse lentamente.

Alcuni dietro le nostre spalle cominciarono a dare calci al pallone e a farsi dei passaggi.
L’arbitro fischiò per attirare l’attenzione. Alcuni giocatori si disposero per riprendere la partita.
Altri si infrattarono fra la gente che sembrava non voler lasciare la piazza e sparirono.
La partita riprese, a ranghi ridotti, mestamente: i giocatori rimasti recuperarono in breve l’entusiasmo della sfida e lo slancio sportivo.
Ma la foga agonistica in quella piazza, dopo quello che era successo, era fuori luogo.
Era penosa.
Irritante.
Me ne andai amareggiato.
Avviandomi verso il parcheggio riattraversai le strade del centro, quelle festosamente e fastosamente percorse in corteo, col mio tabarro azzurro sotto il braccio, l’incongruo scolapasta in mano e la macchina fotografica a tracolla.
La gente che incontravo si girava a guardarmi con curiosità.
Me ne vergognavo, come se invece delle corna di vacca sull’elmo avessi le orecchie d’asino in testa.


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