martedì 19 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (5): libri, libri, libri

La lettura, soprattutto notturna, continuava ad essere pane dell’anima.

Sono di quegli anni i primi tascabili.
Feci incetta degli Oscar Mondadori, che costavano 350 lire. Me li divoravo uno dietro l’altro, di settimana in settimana. Lessi tutti gli americani (Steinbeck, Dos Passos, Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, Miller,… ); molti francesi (Sartre e Camus in particolare, e Proust, De Beauvoir, Beckett, Jonesco, Duras e Yourcenar); nessun tedesco (ho idiosincrasia nei confronti degli autori di lingua tedesca, esclusi alcuni austriaci); lessi tutto Cecov, nella BUR; lessi Kafka; lessi con avidità tutte le opere di Calvino rinvenute in biblioteca, e Pirandello, Svevo, Moravia, Levi, Vittorini, Pavese, Fenoglio, Lajolo, Silone, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Gadda, Manganelli, Pasolini; mi divertii con Piero Chiara e un suo emulo, Gino Pugnetti.
Molti libri li acquistavo sulle bancarelle: è incredibile quali piccoli tesori e quali gustose occasioni si possono trovare sulle bancarelle (dove - immaginavo allora - delle stupide ed ignoranti vedove si liberavano dei troppi, ingombranti ed inutili libri di inutili mariti finalmente defunti; dove gli eredi di eruditi zii avvocati o preti, tentavano di realizzare qualche quattrino).
In biblioteca passavo ore a spulciare i cataloghi, per autore, per argomento.
Parlavo delle mie letture con chi potevo, scambiavo consigli e libri.

Ogni autore provocava un innamoramento, una piccola infatuazione, una passionale cottarella.

Gadda mi conquistò per il suo modo di scrivere, per la complessità stilistica da lui adottata anche per descrivere la più comune delle situazioni, per la commistione di stili e per i dialettismi strampalati ed i gerghi decontestualizzati, per le scelte lessicali eterogenee e l’uso di termini bislacchi o di parole mutuate da linguaggi specialistici, per le metafore estreme ed i giudizi icastici, freddi e lapidari.
Lessi di seguito L’Adalgisa, più acida del Giorno di Parini nei confronti di certa milanesità; lessi d’un fiato, anche se con qualche fatica di decodificazione, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, ferocissimo ritratto - sotto forma di romanzo poliziesco - della spregevole società, ipocrita in superficie e fetente nel profondo; lessi il più ostico La cognizione del dolore, storia della feroce ribellione di un uomo dilaniato dalla sofferenza e vittima rabbiosa dell’ingiustizia.
Mi parve, mi pare, che Gadda volesse dire cose estreme ma camuffasse con l’ironia e l’autoironia l’urgenza di gridare la sua rabbiosa analisi; che avesse bisogno di ribaltare in riso il pathos, di contenere l’orrore con lo sberleffo, di filosofeggiare sul banale e banalizzare la filosofia, di sconcertare il lettore per tenerlo a distanza, e sveglio, di spiazzare chi si adagiava sulle righe, di scompigliare l’ordine, di guastare la giornata.

Calvino fu un amore assoluto. Lo scoprii leggendo la trilogia de Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente, tre apologhi che sanno essere comici, rigorosi ma anche semplici, profondi come vangeli ed esilaranti come farse, graffianti e nello stesso tempo eleganti, perfetti meccanismi ispirati da una severa eticità ma anche da una commiserazione sottile per le debolezze umane, pamphlet allegorici intrisi di impegno non moralista e di divertimento non superficiale, inconsistente, d’evasione.
Esilarante nell’impianto generale e negli originali spunti appare la storia del visconte che colpito da una cannonata si spacca a metà come una mela con le due mezze parti che sopravvivono, una totalmente malvagia da cui tutti fuggono, una esageratamente retta che tutti evitano per il suo esasperante buonismo.
Spiazzante è la storia del barone che per un capriccio infantile sale su un albero e - sfidando chi ha detto “lasciatelo perdere che prima o poi scenderà” - vive tutta la vita fra i rami, ribelle perpetuo, caparbio, coerente.
Angosciante il personaggio puro del cavaliere che eleva la sua obbedienza ascetica ad un livello di alienazione così alto da … non esistere, agendo solo con la forza della fede e della purezza dell’ideale cavalleresco.
Lessi poi tutti i Racconti, Marcovaldo, Le fiabe italiane, La giornata di uno scrutatore, Le cosmicomiche e Ti con zero (fantascienza dei primordi, giochi di funambolismo spaziotemporale).

Camus mi conquistò con Lo straniero. Dalla prima riga mi turbò per la inquietante lucidità con cui accettava il dolore e l’assurdità dell’esistenza. Scoprii in seguito - leggendo La peste, La caduta, Il mito di Sisifo, i racconti e le piece teatrali - anche la sua passione per la vita e la libertà, coltivate pur nella consapevolezza della inutilità di ogni rivolta. Mi piacque di lui la scelta, simile alla mia, di essere un ribelle e di coltivare una rivolta interiore vivendo la immodificabile quotidianità. Come lui ero moderatamente soddisfatto di essere ateo, non potendo credere in un dio che consente la assurda morte, ma di esserlo senza accanimento e senza rabbia; di considerare la religione e la rivoluzione due forme di inganno, oppio dei popoli l’una non meno dell’altra; di praticare la solidarietà non per le classi sfruttate ma per gli individui, spesso sacrificati dalle logiche politiche di chi li vuol salvare…
Così io leggevo, capivo e amavo Camus, il mio inquieto padre spirituale, morto nel 1960, a 47 anni, in un incidente d’auto.

Non così intensamente amai Sarte, del quale non capivo e non mi sforzavo di capire le teorie esistenzialiste. Del vecchio filosofo mi piaceva comunque la suggestione della scrittura e, soprattutto, apprezzai l’impegno politico di un comunista che con una invidiabile autonomia di pensiero si schierava contro l’Unione Sovietica che invadeva Ungheria e Cecoslovacchia, contro il suo governo che attuava repressioni spietate in Algeria, contro gli USA nella guerra del Vietnam. Mi era simpatico quel vecchio impenitente, compagno oltretutto della Simone De Beauvoir, che era per la rivoluzione di Castro, che nel ‘64 rifiutava il premio Nobel per la letteratura, che nel ’68 si schierava con gli studenti del maggio parigino.

Kafka, lo sconvolgente Kafla, fu - e resta - uno degli autori da me più intimamente amati, col suo essere “kafkiano” in ogni riga, con la sua assurdità angosciante, incontrollabile.
Alcune sue riflessioni, glaciali di desolante disperazione e di nichilismo metafisico, erano per me accecanti, tanto rispecchiavano la mia tristezza e la mia metafisica e poetica propensione alla malinconia:
“Dormito, destato, dormito, destato: vita miserabile” (Diari, 19 luglio 1910);
“Stamane per la prima volta dopo lungo tempo di nuovo la gioia di immaginare un coltello girato nel mio cuore” (Diari, 2 novembre 1911);
“Sono disfatto… Un vaso vuoto ancora intero e già fra cocci oppure già coccio e ancora fra gli interi. Tutto menzogna, odio e invidia. Inetto, sciocco, duro di comprendonio. Tutto pigrizia, debolezza e incapacità di difesa. All’età di trentun’anni” (Diari, 6 agosto 1914);
“Un’immagine della mia esistenza sarebbe una pertica inutile, incrostata di brina e di neve, infilata obliquamente nel terreno, in un campo profondamente sconvolto, al margine d’una grande pianura, in una buia notte invernale” (Diari, 5 dicembre 1914).
“È come se uno fosse prigioniero e volesse non soltanto fuggire, il che forse sarebbe possibile, ma anche trasformare la sua prigione in un meraviglioso castello” (Lettera al padre).
Lessi tutte le sue opere - romanzi, diari, racconti, frammenti di manoscritti - in fretta, come affamato, ricavandone una sensazione di disagio, di sgradevole imbarazzo. Gli avvenimenti nelle trame di Kafka sono irragionevoli, incontrollabili, incongruenti; sono l’espressione esasperata della mancanza di significato. Le situazioni appaiono incomprensibili, incoerenti, assurde, paradossali (il paradosso, lessi allora da qualche parte, è la verità capovolta per attirare l’attenzione). I personaggi si muovono passivi, degradati alla condizione di spettatori della loro storia; subiscono tutto drammaticamente, senza comprendere il senso di quel che accade, senza chiederne ragione, in un universo che gira nel suo irragionevole silenzio senza significato e senza razionalità.
Se non trovi che la vita abbia senso, vivila e non cercare altro. Se il vuoto ti sembra inaccettabile riempilo di un qualunque assurdo simulacro, di un artificio, di un fantoccio; e difenditi come puoi dall’angoscia che ti assale.
L’impresa più difficile dell’esistenza è proprio quella di dare un senso all’esistenza. Quando non si
trovano risposte è meglio non farsi domande.
“Un tempo non capivo perché non ricevessi risposta alla mia domanda, oggi non capisco come potessi illudermi di poter far domande. Ma non è che m’illudessi, interrogavo soltanto” (Quaderni in ottavo).

Anche Svevo - come Kafka, come Camus, come Pirandello - mi rappresentava con spietata lucidità.
Leggevo le pagine di Una vita ricordando l’adolescenza repressa in cui avevo sperimentato, in piena coscienza, l’amarezza della inettitudine, l’inganno delle velleità.
Leggevo Senilità e si rinnovava la sofferenza data della impotenza consapevole, dalla vecchiaia morale, dalla inadeguatezza esistenziale.
La coscienza di Zeno fotografava con fredda efficacia la crisi e la disperazione di chi si nutre di ambizioni e vive rassegnato nello squallore, di chi coltiva sogni eroici solo per sopravvivere alla miseria quotidiana.
Non c’è niente di più devastante che tenersi calda una illusione con la consapevolezza di non poterla realizzare. Non c’è condizione più amara di chi sorride con ironico distacco della propria deriva. Non c’è nessuno più infelice di chi, non avendo speranze, non si dispera.
La desolazione sperimentata nel passato e lo sconforto rivissuto nelle pagine di Svevo lasciavano comunque il segno, graffiavano l’anima, inquinavano le giornate, condizionavano lo stato d’animo, contaminavano il presente e si riverberavano sul futuro. Questo sfacelo produce la coscienza dello scarto che esiste fra illusione e realtà.

Di Pirandello lessi o rilessi le Novelle per un anno poi Il fu Mattia Pascal e qualche commedia, superando la riluttanza che avevo ed ho nel leggere piece teatrali.
Anche Pirandello toccava alcune corde sensibili, anche Pirandello sembrava aver scritto certe pagine per me: sull’angoscia ineliminabile, sulla fuga come unica soluzione (Il fu Mattia Pascal), sulla verità mai unica e sull’ambivalenza (Sei personaggi in cerca d’autore, Così è (se vi pare), Pensaci Giacomino, Piacere dell’onestà, Giuoco delle parti,…), sulla frammentazione della personalità e sulla follia estremo rifugio (Berretto a sonagli, Enrico IV).
In particolare mi colpì una novella che mi sembra fosse intitolata Il treno ha fischiato e raccontava la squallida esistenza di un vecchio e grigio impiegato, forse un copista, che sgobbava per uno stipendio da pezzente e portava del lavoro straordinario a casa dove viveva in condizioni pietose, forse con una moglie acida, forse con dei familiari malati e vecchi, tutti comunque aridi e irriconoscenti. Una notte d’estate il vento portò attraverso le finestre aperte il fischio di un treno che passava in lontananza. Il travet sognò di essere su quel treno, di andare lontano, di essere atteso da qualche parte, di avere una vita,… e impazzì. Lasciò il lavoro, precipitò nell’inedia, si isolò, si abbrutì. Fissava senza vedere e ripeteva in continuazione una sola frase: “Il treno ha fischiato”.

I falliti, in definitiva, attiravano la mia attenzione.
Quelli di Svevo (Alfonso Nitti in Una vita, Brentani in Senilità, Zeno in La coscienza di Zeno); quelli di Pirandello, alla ricerca di un’identità; quelli di Proust, alla ricerca del tempo perduto; gli indifferenti di Moravia; gli uomini senza qualità di Musil; i nauseati di Sartre (’38); gli stranieri apatici di Camus; gli assurdi pessimisti di Beckett; quelli stralunati di Ionesco.

Pavese mi attirò per questo, forse. Il suo suicidio lo leggevo come un gesto di rifiuto del senso di fallimento che accompagna la ordinata vita “produttiva” (scrivere, pubblicare, guadagnare, trattare con gli editori, fare i conti col mercato, coi recensori, con il gusto dei lettori,…), diversa dalla fase di vita “creativa” (macerarsi nell’inedia, nella malinconia senza rimedio, nella rabbia impotente, sentir crescere dentro la voglia di scuotere l’universo, scrivere per sfogarsi, …).

Di Pasolini amai prima di tutto la straordinaria ambiguità, l’incredibile sdoppiamento di un uomo anfibio che viveva una vita pubblica da intellettuale impegnato (poeta, saggista, romanziere, sceneggiatore, regista, … amico di tutti i più noti nomi della cultura) e una vita privata da disperato insaziabile libidinoso erotomane, cercando - di giorno e di notte - situazioni estreme: il massimo della raffinatezza nel coltivare l’ingegno, il massimo della dissolutezza nel praticare il sesso.
Mi piaceva l’inconsueta rappresentazione di questa doppiezza che traspirava dai suoi libri sugli emarginati di periferia (Ragazzi di vita del ’55 e Una vita violenta del ’59), libri che presentano un impianto narrativo sofisticato ma sono farciti da contenuti crudamente e chiaramente autobiografici.
Mi sconcertavano i suoi film (Accattone del ’61, Mamma Roma del ’62, La ricotta del ’63, Vangelo secondo Matteo del ’64, Uccellacci e uccellini del ‘66,…) nei quali rivela un raffinato “mestiere” ma fa trapelare nello stesso tempo una fattura apparentemente ingenua e usa attori pateticamente incapaci, grezzi, rozzi, brutti, sporchi e cattivi, impacciati, evidentemente reclutati sulla strada, quasi certamente conosciuti e reclutati nelle sue inquiete scorribande notturne.
Più tardi questa ambivalenza avrebbe trovato, prima della tragica ed emblematica soluzione, un suo equilibrio, una ragione d’essere data dalla dolorosa convinzione che la poesia non salva la vita, che la cultura non redime, che la letteratura non ha funzioni liberatorie e non è separabile dalla vita, che la privata mostruosità è la stessa mostruosità che consuma la cultura borghese, che l’intellettuale parla a vuoto ingannando se stesso e chi lo ascolta oppure urla utopie che nessuno sente e capisce, che i migliori maestri non credono in quello che dicono e sono consapevoli della propria inutilità, che i peggiori maestri sono quelli che predicano le virtù e consumano le anime.
Unica parentesi serena in questo tragico percorso sarà data dai film tratti dalle narrazioni popolane del Decamerone, dei Racconti di Canterbury e da Il fiore delle Mille e una notte, una trilogia fantastica che esalta la genuinità dei rapporti immediati - fisiologici - di persone spontanee in ambienti da favola, in tempi remoti, in mondi lontani.

Ritornai ancora su Pavese, Fenoglio, Laiolo, Ada Gobetti, Levi, Meneghello. E mille altri storici della Resistenza: Zangrandi (Il lungo viaggio attraverso il fascismo, in due volumi), Chabod, Ciano (I diari).

Giuseppe Berto mi affascinò col suo terribile libro di introspezione psicologica (Il male oscuro, del ’64) che cattura e trascina lungo le sue infinite righe senza punteggiatura, che incanta e trasporta nell’angoscia, e isola nella bolla onirica dell’inquietudine, e rinchiude nei pensieri neri; le sue elucubrazioni infinite risvegliavano in me i sensi di colpa rimossi, mi abbattevano nella desolazione della anaffettività, sollevando il rammarico di parole non dette, l’amarezza di conforti non dati, la disperazione per disperazioni non capite.

Lessi - parlo ora di poesia - i russi: la dolce, sensibile, trepida Achmatova; il chiassoso, agitato, epico Majakovskij; la tragica Cvetaeva e il vanesio Evtušenko; e Pasternak, ritrovato dopo la pubblicazione de Il dottor Živago; e altri autori scoperti in una bella raccolta di poesia russa del Novecento curata da A. M. Ripellino.
Lessi i poeti di lingua spagnola: il vivissimo e fantasmagorico Lorca, e Rafael Alberti e Neruda.
Lessi soprattutto, per scelta culturale, gli americani della beat generation (Corso, Ferlinghetti, Kerouac,…).

I bambini vogliono una fiaba prima di entrare nella notte; i giovani fiorentini nel Decamerone si raccontano novelle mentre fuori imperversa la peste; Sherazade per vivere si aggrappa ad una trama infinita.
La letteratura forse non salva la vita, ma aiuta a sopravvivere.


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