martedì 26 maggio 2009

1050 (2): Le stalle

Lungo la strada che portava alla scuola si apriva una fila di innumerevoli basse finestre che davano aria e luce ad una stalla.
Mi fermavo davanti ad ognuna, come alle stazioni di una via crucis, per sbirciare, attraverso le inferriate ed i vapori dei fiati, le placide mucche ruminanti.
Ogni mucca aveva il suo nome, scritto su una lavagnetta appesa sopra la mangiatoia.
Sulla lavagnetta erano segnati con grafia incerta altri appunti per me misteriosi: la data di nascita, quella della fecondazione o quella presunta del parto, il nome di un medicinale somministrato, la quantità di latte munto,…
I nomi spesso erano di ispirazione bucolica come Fiorina, Pasqualina, Margherita o Rosina; oppure definivano una caratteristica fisica o caratteriale come Bianchina, Nerina, Bruna, Macchia, Stella, Mansueta, Nervosa, Matta.
Non poche si fregiavano di nomi altisonanti come Ginevra, Genoveffa e Gertrude; o portavano inconsapevolmente i nomi arcaici di Berta, Amalia, Carolina; o ancora nomi inconsueti come Diomira, Esmeralda, Filomena, Imelda, Aida o Leopolda.
Alcune avevano ereditato nomi introdotti nelle stalle da lontane esperienze militari e portavano nomi come Sentinella, Gorizia, Tripolina.
Altre prendevano il nome dalle più sognate mete degli emigranti e venivano battezzate America, Australia, Argentina.
Altre ancora, a testimonianza ironica di ideali, propensioni o antipatie politiche si chiamavano Speranza, Avvenire, Libertà, Palmira, Alalà.

Mi fermavo davanti ad una finestra meno schermata delle altre, protendevo la mano verso la testa di una mucca dallo sguardo dolcemente triste, la chiamavo sottovoce sperando che allungasse il muso verso di me per poterla accarezzare, sia pur con un certo timore ed un po’ di repulsione per le umide froge.
Il mio trasporto amoroso non era mai ricambiato: la mucca proseguiva a emettere fumo e a ruminare con impassibile indifferenza; nel suo occhio si specchiava deformato il riquadro della finestra con la mia sagoma protesa.
Spesso i compagni che passavano sulla strada si fermavano dietro di me, sbirciavano attraverso la finestra, spaurivano la mucca con un gesto brusco o un verso sguaiato e si allontanavano chiassosi e spavaldi; la bestia abbassava il capo, scuoteva le innocue corna per accomodarsi il collare e tornava al suo rassegnato ruminare.
Sotto l’ultima finestra, in un recinto a parte, barcollavano spesso dei malfermi vitelli senza nome, sgraziati e sporchi, persi e dinoccolati, incapaci di guardare verso la finestra con quei loro occhi acquosi e ottusi.

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