domenica 9 agosto 2020

Poesie in tempi di Coronavirus - marzo-luglio 2020



Da tempo non scrivo poesie, sostenendo e spiegando - a chi me ne ha chiesto i motivi - che per scrivere poesie è necessario essere innamorati o disperati.


Dal marzo 2020 ho sentito il bisogno di ricominciare.

Poesie un po' disperate, un po' no; alcune personali, alcune un po' più "sociali" o esistenziali (nel senso che parlano dell'esistenza in generale).


Non sto a rifletterci più di tanto nel "raffinarle". Non faccio selezioni.

Se una su dieci dice qualcosa, è un gran successo.


Le posto tutte qui, su questo blog abbandonato da tempo, se non altro per non perderle. 

In ordine cronologico, a partire da marzo 2020 e fino a novembre.

Poi vedremo.




IN TEMPI DEL CORONA VIRUS


1

Questa strana quiete cesserà

alla fine della strada

e finirà questo sordo panico confuso

che cova dentro

muto nel silenzio.


Bruciate con me questa matita,

se potete,

oppure no,

lasciatele dov’è, che fa lo stesso


2

Inerte.

Sarò così.

E con le mani fredde,

il cuore fermo,

la mente spenta.

E tutto intorno

Un’aria mestamente neutra

e un poco interrotta, e per poco.


Sarà così: 

è vaporoso il tempo della vita

che impercettibilmente

si disperde veloce come il fumo

o scivola come sabbia fra le dita.


La terra non è lieve: è indifferente.

Io,

io sarò lieve, immateriale, 

evanescente come la memoria.



3

È un attimo il risveglio.

E subito affiora la tristezza

che sfilaccia le ore

lenta, lungo il giorno lento.

Nessuna mano sulla spalla

a consolare,

ma occhi persi e schivi

dentro i quali l’anima si specchia

per dilagare e intridere i pensieri.


4

Passano fluidi i giorni

uno dopo l’altro.

Colano le ore,

una dopo l’altra.

scivolano i minuti inconsistenti.

Il silenzio è compatto e quasi pesa,

rotto solo dal lugubre verso dei piccioni.

Scorre liquido il tempo

e infradicia e consuma

gli aridi residui 

di questa vita  instabile e sbrecciata.


5

“L’angoscia vera è fatta di noia” (Pavese)


Per non sprofondare dentro il vuoto

basta forse riempirlo con la noia.

Basta imparare con pazienza

a coltivare la noia artificiale,

terapia sistematica all’angoscia

anestetico all’isteria dei desideri.

Così con la finta indifferenza

ci si purga delle pallide finzioni;

così si disimpara 

il calore dell’amore

per diventare renitenti della vita.


6

Esasperato, no:

solamente freddo 

e lucido,

lucidamente consapevole.

So che non vedrò

la fine di questa mutazione.

Nemmeno lo zapping fra i ricordi

smuove le nostalgie

che hanno perduto consistenza

e forse – non so, non son sicuro –

potrebbero agitare un desiderio,

dirottare un sogno.

Sul piano inclinato non c’è appiglio

e il nulla già lo sento nelle ossa.


7

Continuo a fingere armonia

e non mi lascio tentare 

dall’acido fiele della rabbia.

Trattengo l’urlo

che preme dentro 

e trattengo la consapevolezza.

Se per caso la lasciassi andare

ne sarei scorticato

e assisterei sconvolto e impotente

alla inarrestabile rovina.


8

Ricordati, ragazzo, io ti chiedo

di sciogliere un sorriso dolce

davanti a me

quando io non potrò vederti.

Un sorriso semplice,

dolce e sereno,

tenero e soave.

Dolce per i dolci tuoi ricordi,

sereno per le cose condivise,

tenero per il me che tu un po’ sei

e soave,

soave

per quello che sarai senza di me.


9

Morirà anche la terra,

- cazzo! -

con la sua crosta putrefatta,

i miasmi sotto i cieli grigi

e il ribollire putrido dei mari.

Forse si salveranno pochi muri, 

squallide e tenaci archeologie,

e i cimiteri

invasi di formiche.


10

Pare un romanzo noioso la mia vita

fatta di inutili minuzie

e di nessuna stravaganza.

È vero:

ho messo confini alle emozioni

e ho usato parole pacate 

per rendere un po’ meno dolorosa

la fatica di sedare le antiche seti.

Ma ora che i miei giorni van scemando

non mi lascio ingombrare dai rimpianti:

nessun “però” farà la differenza-


11

Cresce l’inedia in questi giorni vuoti,

e lo sconforto neutro fagocita le ore.

Non so che farne di questa primavera,

dei suoi stupidi tepori, 

dei suoi colori inutili e chiassosi,

delle sue arie che indovino oltre i muri.

In questo irreale isolamento

freno ogni rumore 

e così

ma non filtrano fin qui, pesandomi sul cuore,

i fiati e gli affanni di chi muore.


12

Quante piccole finzioni

e quali risibili e ingenue strategie

per istinto ho saputo escogitare

per dribblare sul percorso della vita,

nel contempo, disgusti e desideri,

annaspando con la pavida cautela

di un rettile uscito dal letargo.

Che sollievo smorzare le emozioni

e cercare solamente il vuoto

dentro il vuoto, dentro il vuoto quotidiano.

E quanto mi è sembrato dolce – e triste –

vivere anestetizzato sotto traccia.



13

Ora, 

ora che son sedate le finzioni

e non è più necessario far conquiste,

mi lego a quel che ho

con una imprevedibile tenacia.

Si sono sbriciolati i desideri,

ma penso con terrore

a quando finiranno questi giorni

vissuti quasi in parallelo

con questa amica silenziosa

che sorveglia i miei passi

con cautela, per scelta e per istinto,

oltre ogni ragione generosa.

Non riesco, non voglio immaginare

giorni diversi.

Non aspetto tempi supplementari

E rimando a domani la paura.



14

Non cesso di essere maschera, lo so.

Non la indosso: lo sono.

E per questo non la posso lacerare.

Per una lenta osmosi progressiva

Sono diventato quel che sembro

ed alla scarsa luce del tramonto

l’essenza vale quanto la sembianza.

Nascondermi o svelarmi fa lo stesso:

è diventato bifronte lo sgomento.


15

Escono gli umani,

escono a ripopolare i marciapiedi.

Si affacciano nel limpido deserto

per ritrovare le apparenze consuete.

Tutto tornerà come prima.

Tutto tornerà come prima

nel caos del formicaio scoperchiato.

Non è, non è stata e non sarà

una tragedia,

ma il naturale processo del pianeta

fatto di espansioni e contraddizioni,

fughe e rallentamenti,

deviazioni e scarti,

cadute,

apparizioni e sparizioni

nella più netta indifferenza.


16.

Vivo, come se sapessi come.

Vado, come se sapessi dove.

Tutto è più ottuso di quanto non credessi, 

il cielo è troppo alto,

l’aria pare in pausa,

e si è interrotta come fosse un sogno

la fatua morbidezza che cercavo.


17.

Quando sarà

non restare a guardar le stanze vuote

stagnanti nel silenzio.

Non affacciarti a guardare il mio giardino

con dei pensieri grigi:

il melograno, la lavanda, il gelsomino

fioriranno comunque a primavera

indifferenti a chi li vede.

Le stanze, le mie foto, le mie cose

non ti diranno niente di diverso

di quello che già sai.


18.

Non so.

E’ un conforto la presenza dell’amica:

una presenza-assenza silenziosa,

come fosse un profumo.

Il sapere che c’è in un’altra stanza

“in tutt’altre faccende affaccendata”

mi culla nel torpore,

dentro una solitudine pacifica e appagata,

placida, quieta, quasi sonnolenta,

al riparo del vuoto desolato,

lontano dai rumori,

da quelli consueti della strada

e da quelli che ti sgretolano dentro.


19.

Questo è un luogo piccolo, una tana

Dove ogni giorno col suo ritmo lento

lascia il posto ad un altro,

dove gli odori sono familiari

e i rumori attutiti.

E’ qui che snocciolo le ore nell’inedia,

qui mi riparo dal tempo che è passato, 

qui non guardo 

- e non voglio, e non m’importa - 

di quello che sarà.



20.

Fingo normalità

ben consapevole che i giorni

affondano lenti nel catrame nero.

In questo son campione.

Recito la parte dell’illeso

nascondendo il mio cuore raggrinzito.

Non importa 

del tempo che farà domani.

Mi concentro – e un poco mi trascino –

nel tramestio irreale 

delle ore meccaniche e sbiadite,

compresse fra attoniti risvegli

e tramonti sempre più dolenti.


21.

Quella che fin qui era cauta gentilezza

ora è penosa indifferenza,

autismo spaurito e catalessi.

Sono concentrato nell’attesa

che accada quel che deve,

ma non voglio che tracimi

l’autocommiserazione.

Mi bastano i pensieri negativi

e lo sconforto che mi danno

per avanzare senza strepito a tentoni

in questo crepuscolo fumoso.


22.

Trovo sempre qualcosa di banale

che mi distolga un poco dal disgusto

e che mi possa annebbiare in qualche modo.

Per evitare spasmi esistenziali

basta che mi concentri sui dettagli

di un inutile lavoro solitario,

basta che mi inventi monotonie diverse,

fintamente diverse.

Ma dimenticare cosa sono e dove

per due ore o per tutta una serata

non cambia la sostanza atroce delle cose

e tutto rimane quel che è

- delirante e sordo –

sopra le mie fragili amnesie.


23.

Chiamala col suo nome la paura.

Se la camuffi, resta quel che è,

se la nascondi o la rinchiudi sigillata,

dal fondo fa sentire il suo respiro

che è più terribile nel buio,

e allucinante e cupo,

così come è più denso il vuoto

che aleggia in una stanza vuota.


24.

I bambini – e tutte le anime innocenti –

vogliono protezione

e si beano di avere chi li salvi.

Poi,

crescendo o maturando,

hanno bisogno di proteggere e salvare.

Nel mio vicolo cieco, 

dove l’oscurità non si dirada,

brancolo senza desideri di salvezza

e nessuno si aspetta che lo salvi.


25.

Non pare,

ma i piccoli atti quotidiani

rituali e solitari,

scandiscono il disfacimento lento

che - certo - non può dirsi inaspettato.


26.

La splendida giornata

camuffa bene

tutta la ferocia che serpeggia.

I colori e gli odori dell’estate

- la lavanda, le rose, il melograno -

sono indifferenti alla minaccia.

C’è dolcezza nell’aria di questo pomeriggio,

una dolcezza quieta che non pare strana,

ma consueta, ipnotica, …

Dicono che sia dolce l’agonia.


27.

Prima

capitava o poteva capitare

di risvegliarmi alleggerito o con sollievo 

da un sogno affannato.

Ora il sonno chimico

è sedato, pacifico e profondo,

ma il risveglio

si apre su inquietudini confuse, 

porta equilibri precari

e incerti.

E ogni volta è come fossi altrove

senza la voglia di tornare, 

come se questa non fosse casa mia 

e tutto fuori fosse raggrinzito.


28.

Preferisco la tana.

Non è più stagione

di affinità mentali o emotive.

Tutto mi costringe, 

ma nello stesso tempo

da tutto son lontano.

disorientato e fiacco.


Questa notte

mi sono affacciato alla finestra.

C’era una luna enorme

impigliata nei rami del tiglio

e non sapeva da che parte andare.


29.

Nulla ha importanza,

tanto meno la mia piccola vita senza peso

fragile più dei bagagli che trascina.


È fatta di poco la vita degli umani

che scivola lenta nel silenzio

nonostante l’inutile fracasso,

parte di disegni arcani senza schema.

Vita da scarafaggi spaesati, 

intrappolati dalla biologia

nel percorso dell’ascesa e del declino.


30.

Succede qualche volta,

in ore di inedia faticosa

e di pensieri grigi,

capita che mi senta un po’ sdoppiato

e mi scruti come fossi un altro: 

estraneo, separato, 

dissociato come un recipiente accantonato.

L’io che mi guarda

è omnisciente, cinico, impietoso

e non ha pena per la pena mia.

Lo odio dal profondo

mentre sotto il suo sguardo inaridisco,

ma so perfettamente che ha ragione.


31.

Giorni silenziosi e quieti,

fluidi e inconsistenti,

fatti di un incanto di noia

e di qualche gioia pallida e sottile.

Sono in una bolla che protegge 

ma non consente fughe nei ricordi

svaporati e vani, 

e non permette inattuabili progetti.

Fluttuare sospesi nel presente

senza lasciare traccia

è il magico regalo del momento.


32.

Nel metter sotto vuoto le paure

includo le memorie e le speranze

e i pensieri tutti

che non so dove possano portarmi.

Non guardo oltre la siepe

dove c’è la vertigine in agguato;

e non mi guardo dentro

dove un vortice potrebbe risucchiarmi.

Mi lascio accompagnare solamente

dalla malinconia

della quale non declino le ragioni.

Subisco i giorni

non potendo prevedere quel che viene,

come i sogni inquinati

intrisi da ossessioni

che non posso di certo pilotare.



33.

È un andare piatto alla deriva,

senza grazia, senza disperazione.

Come se fossi irresoluto

e non sapessi comunque dove andare,

come se fossi qui

e nello stesso tempo altrove,

estraneo, opaco, sbigottito.

Le emozioni, tutte le emozioni,

viaggiano a velocità diverse dalla mia

e sfumano lontane,

sempre più lontane,

e fievoli, e sbiadite.


34.

La tristezza si espande come l’acqua,

si infiltra silenziosa e sembra innocua.

Disfa ma non scioglie i grumi

che si stemperano solo col calore.

Come l’acqua si espande la tristezza,

fredda e silenziosa,

e dilaga apparentemente senza danno.

Io la conosco

ma non la so fermare:

Passo le ore stordito

nel torpore nebbioso.

Ne porto i segni, la sento nelle ossa

e lascio che completi il suo lavoro.


35.

Arriva il momento

in cui tutti i ricordi più felici

portano una stretta al cuore.

Ora che attraverso questa estate,

vivo come si ci fosse la nebbia di novembre

e appare incongruo, non esiste,

il tepore di luglio.

Evapora la memoria delle cose più essenziali.

I pensieri che affollano la mente

girano in cerchio e non sanno dove andare.


36.

Un posto dove stare io ce l’ho,

ma non è il posto da cui potrò partire

per cullarmi nel desiderio di tornare.

Se me ne andrò da qui sarà per sempre.

Non avrà più tappe intermedie la mia vita, 

né sorprese, né incontri inaspettati.

Tenacemente spero

che i fragili giorni che verranno

possano sfilare neutri e senza peseo.


37.

Incontro ancora gente

e scambio con gli amici

segnali di usuale appartenenza,

ma per farmi riconoscere

recito un copione

e fingo di sembrare quel che ero.

Solo così – barando –

mantengo questa vita sui binari

che puntano diritti nel deserto.


38.

La mattina arriva quieta

e sembra che tutto possa cominciare.

Si apre quieta e chiara ogni mattina,

tanto quieta da mettere paura,

tanto chiara da sembrare abbaglio.

Scorre via veloce il tempo, la mattina:

rapido come la lieve adolescenza

che appare viva dentro il suo fulgore

solo nella distorsione dei ricordi.


39.

Nella notte fonda

mi sveglia il dolce brusìo della pioggia.

Ascolto l’acqua con un senso di sollievo

e so che là fuori sta lavando

la crosta nera delle strade 

e porta sollievo alle foglie impolverate

dei platani e dei pioppi.

Annuisco nel buio

a non so quale domanda mi son fatto.


40.

Con le parole cerco di fermare

il torpido groviglio dei pensieri

che non posso – non serve – districare.

Tanto,

davanti a me c’è solo nebbia

e non c’è bisogno di vedere 

quando non c’è la strada,

quando non c’è un dove,

quando non c’è nessun sorriso che ti aspetta.



41.

Come ogni sera,

l’ombra scivola dentro il mio giardino,

scorre lentamente sulla ghiaia

spazzandola leggera

e si arrampica sul muro di cemento 

per inghiottire la fontana.

E io so che è ora di innaffiare.


In questo modo silenzioso e neutro,

un giorno dopo l’altro,

striscia impercepita un'altra ombra

inghiottendo lo spazio della vita,

bevendolo goccia a goccia

e comprimendo il tempo come un rullo.


42.

Fluttuo distrattamente, galleggiando,

e deraglio la mente sui binari morti

che finiscono dove io non so.

Ma la vaga inquietudine è in agguato

dentro ogni piega

di questi giorni stropicciati,

fatti di ore lente e bianche;

e di notti fragili

come il baluginare incero di candele

accese in altre stanze vuote

nei quadri di Hammershøi.


43.

Sembra che il tutto si concentro qui,

in questo spazio fermo,

in questo tempo fermo.

E che il resto

- l’altrove, il prima e il dopo –

sia svanito e perso.

Aspetto,

anche se so che è tardi,

anche se so che non merito di meglio.

E me ne sto intanato

ad ascoltare il tremare delle fof

glie,

con l’indice infilato a segnalibro

alla pagina duecentottantasei.


44.

Lo so:

so del male dentro che non ha rimedio

e so del male fuori che è peggiore

e porta il pianeta alla deriva.

Ma ho trovato qui

il mio piccolo rifugio provvisorio,

l’occhio quieto del ciclone,

una bolla nel caos universale.

Fuori,

fra quelli che si credono salvati,

c’è l’ottusa smania di normalità

e una sconcia incosciente frenesia.

Qui

galleggio nell’attesa

nutrendo nel silenzio il mio sconforto.


45.

È un assedio:

dalla tana

percepisco i segnali di minaccia,

quelli che premono da fuori 

e quelli dentro che mi vanno logorando

convergenti e alleati gli uni e gli altri

nel creare lo sgomento.

Respiro con cautela

e sgrano ad una ad una 

- attonito - 

le mie pigre irripetibili giornate.


46.

Di notte

non chiudo gli scuri alle finestre:

nel buio

passano sui muri del soffitto

le rapide bianche sciabolate

e sento la luce del mattino

quando arriva

con lentezza infinita.

Nella indolenza del risveglio

mi lascio cullare dai rumori della strada,

ora che non ci sono dentro casa

passi da riconoscere.



47.

Ora

sono per me mestiere e istinto dilatato

i vecchi giochi tutti cerebrali

della distanza e dello sdoppiamento,

il vedermi da fuori come altro,

il descrivere con lucido distacco

la condizione di malinconia

e i meccanismi disperati del dolore.

Fuori da questi fogli

non lascio trapelare alcun sussurro:

simulo la calma e il distacco,

amo le esitazioni sobrie

e non spreco nessun superlativo.

Dentro

la fatica di vivere lavora

e la foresta di tutte le emozioni

è fatta di gracili bonsai.


48.

Se la vita è l’attimo che fugge,

io non saprei.

I miei attimi comunque sono piatti

o non hanno aggettivi.

I fiori, il sole, il vento

non danno ebbrezza

e non fanno vacillare la mia noia.

So per certo

che non potrò durare

più dei libri che vado accumulando

e dei vecchi attrezzi da giardino

abbandonati al sole sulla ghiaia. 



 

49.

Dentro il sonno artificiale

attraverso con fatiche e con affanni

gli spazi neri della notte

in una raffica di sogni scombinati

pieni di fughe inutili e spossanti.

E poi mi affaccio disarmato al giorno

e conto inquieto 

le ore lente e scolorite

sotto il chiarore estivo che non ha pietà, 

dentro la consapevolezza cruda e silenziosa.

Aspetto l’affievolirsi della luce

e di nuovo desidero la sera,

spero di nuovo nell'inconsapevolezza della notte,

tana sicura,

lago di quieta tenerezza.


50.

Lo scoramento che dentro mi consuma

non urla o fa sconquasso,

ma serpeggia sotto traccia

col suo fluire amorfo,

afono,

in apnea nell’incoscienza

nella profondissima quiete.

Io curo che nessuno l’indovini,

sapendo bene

che il vento nel deserto è naturale.


51.

Chi ama 

è capace di sottili sintonie

e previene i desideri.

Ma il tempo amorfo arriva e spiana tutto.

La scia della cometa

ha il fulgore composto da detriti:

splende a sorpresa e muore

e il buio che la esalta

la insegue veloce e la sopprime.


52.

Non è assolutamente necessario

aspettare l’apice del delirio

di una rivelazione folgorante

o di un’estasi acuta e irreale

per conoscere il senso della vita.

Basta il tempo sospeso, col suo passo lento,

basta il declino naturale,

basta l’ombra della grata contro il muro,

basta lo scorcio di una stanza vuota

silenziosa oltre una porta schiusa.


53.

Sono qui,

ma sono già lontano e inconsistente,

orfano di attese e di memorie.

Sento tutta la mia fragilità,

ma nulla ormai mi può ferire,

nemmeno la vorace lama del presente

con le sue impalpabili paure.

Non so che cosa faccio qui,

se io mi fingo altrove.

È da una vita che scivolo nel tempo,

che attraverso l’aria con cautela,

procedendo a tentoni dentro la caverna

e lascio che mi accadano le cose.

Sono nel deserto dei tartari

e respiro il grigio dell’attesa.



54.

Arrivi a un certo punto

in cui ci sei, sei visto e vai

ma non lasci nessun segno.

Ripetendo il sacrificio

trascorri senza gioia le giornate,

quante sono o saranno non importa,

e non trovi la speranza del mattino.

Sei passante per caso nel tuo tempo,

nemmeno testimone,

straniero a casa tua,

e forse non esisti più.

Nella più inquieta confusione, 

conservi residua una vaga vita vegetale

in una lenta metamorfosi al contrario.



55.

Nella mia precarietà

vedo quella di tutti,

di tutti,

e sento l’infelicità di quel bambino

di cui mi arriva il pianto disperato 

da dietro una finestra, non so quale;

un pianto un po’ stizzito e insistente

che pretende attenzione o chiama aiuto

e perfora l’aria ferma del mattino.

Il muro è lì,

alto nell’ombra e muto,

freddo come uno specchio opaco

e le finestre sono tutte uguali.


56.

Lo so che la vita si fa inutile

se non riesci a immaginare

un qualsiasi domani.

So che diventa un camminare nella nebbia

dopo essersi perduti.

Solo i fantasmi avanzano nel vuoto

dopo che il tempo si è fermato.

Non ci si può salvare

giocando con inutili parole.

Abbandono un sudoku incominciato

che nessuno finirà.


57.

Il passato è un impenetrabile groviglio

prodotto da troppi fatti e troppe sensazioni.

Se mi volto a guardarlo

vedo solo fantasmi, 

e vacillo,

e diventerò di sale,

una statua congelata nel gesto,

subito corrosa e sgretolata.

La vita che ho vissuto ha perso senso

e rileggerla non serve.

Oltre il bosco io so cosa mi attende.


58.

Non c’è grande trambusto intorno a me.

I contatti si sono diradati.

Le porte si aprono per pochi e con cautela,

e quelli che varcano i confini,

lo fanno con estrema discrezione

senza lasciare segni del passaggio,

come i fantasmi.

Ma io so bene

   - e ogni giorno me lo vado sussurrando -

che il fantasma sono io.



59.

So che questa quiete finirà

e arriverà il momento

- un apice, un panico -

non so se di acuta sofferenza

o di incosciente confusione

afona e cieca.

E poi quel vuoto nero,

amorfo,

sospeso nell’assenza.


60.

La gabbia è diventata nido,

o viceversa,

e tengo chiusi qui, o protetti,

anche i pensieri incerti,

gli eventi interiori,

i riverberi della intera vita,

le strade perse e ritrovate,

le delusioni, i sogni, le menzogne,

le malinconie e le inconsapevoli prudenze,

le partenze, i silenzi, le prigioni,

e le paure, le intime paure.

Ma il tempo è poco

e il senso delle cose sfuma in fretta.


61.

Vivo in sordina, smorzando ogni eccesso,

immobile in uno spazio circoscritto.

Sprofondo nella nebbia

e non voglio sapere cosa accade

fuori dal mio cancello.

Ho consumato tutti gli entusiasmi

nelle enfasi del passato

- un passato remoto -

perduto in mille fragili ossessioni.

È durata fin troppo l’isteria,

il remare contro e le rabbie inconcludenti.

Cerco la calma e la penombra.

   Commisero chi non sa tacere.

Non sento più fischiare i treni.



62. 

Ci si mette tanto impegno

per diventare niente

e perdere valore, 

noi e le nostre cose.

Si accumulano passioni e compulsioni

minuscole letizie e piccoli feticci

dense concrezioni di emozioni, 

briciole di vita 

e schegge di momenti vivi.

Poi si diventa inerti,

irriconoscibili e sbiaditi, 

noi e le nostre inutili reliquie.


63.

Da ragazzi si va.

Si va sicuri per lasciare il nido e un segno.

Poi, senza paura,

si cresce per andare,

andare, e andare ancora.

A un certo punto, 

senza motivo e senza preavvisi, 

ci si sente persi.

Ora son qui che aspetto il treno.

Solo.

Lo temo mentre aspetto e guardo l’ora

e guardo in giro con disattenzione.

Non trovo appigli

e non so più che dire.


64.

Indosso la tristezza

per essere coerente con lo sfondo

e con le tinte amorfe

delle ansie irrefrenabili, 

   sottili come sabbia di clessidra.

Gioco la partita fino in fondo

con sempre minore convinzione.

Non ho scelto io questo viaggio

e nemmeno ho stabilito il suo percorso

e non è certo questo il momento di fuggire.


65.

Trattengo i pensieri

che si incalzano fitti e aggrovigliati

e vorrebbero snodarsi

e portarmi lontano, via da qui.

Guardo il temporale

nero e minaccioso dietro i doppi vetri

punteggiati da gocce luminose.

Aspetto che accada qualche cosa

nella pausa metafisica del nulla,

come fossi - mentre si fa sera -  

nella zona di ritiro dei bagagli,

dopo un volo,

sapendo che con me

non ho altro che le cose che ho indosso.


66.

Non so quanto da qui disti il confine,

e non credo che sia così lontano.

Sono certo però

di trovarmi in un paese forestiero

dove nessuno parla la mia lingua.


67.

Mi sembra di tenere la paura

oltre le fragili barriere 

delle mie sottili percezioni,

ma sento che pulsa e freme velenosa

sul confine.

Basta una vacua distrazione,

quella che affiora tra la veglia e il sonno,

per ritrovarmi in una stanza senza porte.


68.

Ascolto nel buio indecifrabili rumori

lontani, di gente che si muove.

Fuori da qui,

in questa notte limpida e nemica, 

il mondo non si ferma.

Vorrei essere altrove,

andare sciolto e inconsapevole,

senza bagagli,

senza destinazione,

senza lasciare traccia.

Ma non sento fischiare nessun treno.



69.

Sogno spesso

di inseguire una persona tra la folla

e di perderla nel panico totale.

E di aver bisogno assoluto di trovarla, 

di parlare con lei.

Fra affanni e ansie,

mi trovo fra le mani un cellulare ignoto

che non ha numeri in rubrica.

Ora so

che non ho smarrito i miei contatti,

che non ho perso i miei interlocutori:

ma io,

io mi son perduto,

strascicando il passo

sull’asse inclinato della vita.

E quel che avrei da dire l’ho già detto



70.

Nel quotidiano

non c’è mai tempo e modo

per le cose essenziali.

E allora, qui, su questi fogli,

io ne condenso una,

 o almeno tento.

Ed è

che vorrei chieder perdono a chi so io

per le verbosità convenzionali

e le cose non dette,

per le banali leggerezze 

e le malinconie nascoste,

per i fili tenuti e quelli sciolti,

per le finzioni escogitate 

col solo scopo di rassicurare.



71.

È tardi e fra poco sarà sera

e poi verrà la pausa precaria della notte

che per chi sfugge al giorno

pare un intervallo senza rischi.

Io so, sì, io so

che il rosario dei giorni e delle notti

è una impercepita traslazione,

un lento smottamento, 

un attraversamento intorpidito

con l’amorfa e sonnolenta inedia 

del viaggiatore sopra un treno.


 72.

Sfilano le nuvole nel cielo

indifferenti e senza far rumore.

Il loro viaggio non finisce mai:

scorrono ad ogni ora

e anche se non le guardi vanno,

sfilacciate o dense, 

vaporose o gonfie.

Scivolando sulla terra

ne imitano le geografie.

Abbozzano fragili figure di animali,

facce,

profili e maschere grottesche.

Di notte giocano da sole,

forse si parlano,

effimere sopra le luci artificiali

e sotto l’eterno firmamento.


73.

Il giardino è sempre lì,

fermo e silenzioso, 

indifferente ai giorni e alle notti,

al sole e alle bufere.

Il suo respiro naturale

non sa nulla della curva temporale

e non distingue 

i pensieri contrastanti degli umani.

La terra si intride quando piove

e poi asciuga.

I rami cambiano colore

e perdono e riacquistano le foglie,

mai uguali.

L’inquietudine è solo di chi guarda.


74.

La scrittura 

non accompagna sulla strada della vita, 

ma in un percorso parallelo.

Per questo è risarcitoria,

come uno specchio impolverato

dove vedi te stesso e il tuo fantasma. 


75.

Non mi farò portare sulle spalle

come Ancise.

Queste macerie sono solo mie,

mie e della mia generazione,

mia la causa, mia la conseguenza.

Non posso gravare 

su ci ho giurato di aiutare per la vita.

Se non posso salvarmi,

non condannerò nessuno al mio soccorso.


76.

Da qui,

in questa condizione di confine,

vedo più chiaramente l’orizzonte

del deserto che sto attraversando, 

del quale non so scorgere la fine.

Assegno il peso giusto

all’aria prosciugata che respiro

e ce risalta i grigi delle cose

e svela le vere prospettive.

Solo il naufrago

ha la lucida e concreta conoscenza

del senso

vero

delle parole mare, onda, vita.


 77.

Siamo tutti, poco o tanto,

il prodotto dei nostri deliri,

come il Cavaliere dalla triste figura,

parto di fantasie stratificate

e frutto di deiezioni narcisiste

o di rimuginazioni confuse.

Ognuno padre e figlio insieme

e orfano di sé.

Non misuriamo mai la nostra decadenza,

ma negli specchi opachi

vediamo quello che desideriamo,

agghindati nelle nostre verità

Monotone e tenaci.


78.

Mi pare di capire che sia questo

il tempo della grande transizione.

Consapevolmente portato alla deriva,

io vivo immerso

in questa metamorfosi annunciata

ma non riesco a coglierne i contorni.

La confusione è nell’aria

come un temporale estivo.

Fingo distrazione ed indolenza,

acquattato nella trama dell’inerzia.


79.

Sterilizza l’anima,

se non ti basta sterilizzare la ferita

ed aspettare che diventi cicatrice.

Metti sotto silenzio il tuo dolore 

se non vuoi esserne annientato.

A nulla serve 

questa leggera pioggia d’autunno 

che cade da un cielo di piombo 

senza finire mai.


80.

Nemmeno più i pensieri 

corrono liberi lontano, 

accantonati qui con me dalla loro gravità 

e spenti in questa casa, 

imbalsamati coi ricordi, 

orfani di orizzonti, 

immobili e smarriti dentro il caos, 

impolverati insieme ai sogni e alle finzioni.


81.

È tutto in bianco e nero 

il mondo che appartiene alla memoria, 

quello che giorno dopo giorno, 

senza che lo sapessi, 

dava consistenza al mio respiro, 

mentre le notti 

erano pause inesistenti.

Nasce da qui 

l’inspiegabile fascino dei grigi: 

dalla seduzione ovattata della nebbia, 

dalla bianca meraviglia della brina 

splendente sulle reti arrugginite, 

dal magico mistero delle orme sulla neve, 

dalla rivelazione di infinito 

della pioggia silenziosa, 

dall’incanto del vapore sopra i vetri 

che rendeva intima la stanza, 

dal fuoco acceso nel camino, 

dall’odore di cenere e bucato,

dalle ombre fascinose che tremavano sui muri

e non destavano paure.